Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Perla e Sir Orfeo: si tratta di tre titoli che probabilmente a qualcuno sfuggono, ma a chi si interessa a J.R.R. Tolkien e alla sua produzione letteraria li troverà famigliari. Queste tre opere fanno parte di una collezione di traduzioni dal Medio Inglese, che si contraddistinguono per la ricercatezza del tema e per la qualità filologica del lavoro compiuto. Se ne registra un’edizione curata da Christopher Tolkien uscita nel 1975, seguita da varie altre tra cui una recente con illustrazione di copertina di John Howe. Di seguito, Giovanni Carmine Costabile (con immagine tratta dall’archivio di Oronzo Cilli) ce ne offre una presentazione, che funge in modo egregio come invito alla lettura di quest’altro notevole filone giunto a noi dall’ingegno del Professore.
Sir Gawain e il Cavaliere Verde
E’ Capodanno in quel di Camelot. A corte è uno sfarzo: banchetti luculliani su tavolate da decine e decine di posti, danze al suono di menestrelli e strimpellatori nelle sale illuminate a giorno, giostre tra cavalieri dove questi si disarcionano uno dopo l’altro a suon di lancia fino all’emergere dei campioni, e declamazioni poetiche, corteggiamenti in francese, accettati e respinti, mentre le sfere dei giocolieri sembrano galleggiare in aria e il tempo quasi si ferma tra la danza delle spade, il duello degli amanti e la sfida, al verso, all’arena, al gioco, alla pista, al bacio, al boccale, proclamata da molte coppie di occhi verso molti altri due occhi.
E’ un attimo, e cala il silenzio. Un’apparizione si è manifestata con tutto il clamore della sua straordinarietà. Un uomo verde, dalla pelle verde, i capelli e la barba verdi, l’armatura verde, l’enorme ascia verde, e persino il cavallo verde, ha fatto il suo ingresso a corte come una sfida: egli non teme nemmeno di offendere il re. Quando Artù, stizzito, gli domanda cosa voglia, se cerchi forse un duello, il soprannaturale individuo ride, per poi rispondere: “No, non cerco un duello, ma un gioco. Chi vorrà potrà tagliarmi la testa, ma poi dovrà permettermi di tagliare tra un anno la sua”.
Un incipit di grande efficacia, che continua a lasciare a bocca aperta i lettori anche oggi, a più di seicento anni dalla stesura dell’opera, che in realtà deriva da altre versioni più antiche. Il prosieguo non è da meno, provare per credere. In Inghilterra e negli Stati Uniti, questo poema non è solo oggetto per specialisti, ma viene proposto anche nelle scuole in quanto classico della letteratura medievale. Difficile che una persona di media cultura nel mondo anglosassone non conosca Sir Gawain e il Cavaliere Verde, anche solo per sentito dire.
Infatti, tra Natale del 1967 e la prima metà del 1968, si fecero i preparativi per la scrittura di un film ispirato a tale vicenda, che avrebbe avuto Mick Jagger nel ruolo del Cavaliere Verde, ma il progetto non vide mai la luce. Esiste un lungometraggio di Stephen Weeks del 1984, riedizione di un precedente del 1973, con Sean Connery nel ruolo del Cavaliere Verde, ma la qualità della realizzazione è piuttosto scarsa e la trama un libero stravolgimento dell’originale con cui mantiene ben pochi legami. Per la televisione vi fu il lungometraggio del 1991 diretto da David Rudkin, di qualità discretamente accettabile. Invece risale proprio a qualche settimana fa, finalmente, l’annuncio di un nuovo film ispirato al poema, che sarà diretto da David Lowery ed è previsto per il 2019.
Tolkien studiò e insegnò quest’opera per tutta la vita, dalla prima scoperta all’inizio degli anni ’10 del Novecento fino alla morte, quando lasciò inedita la traduzione che fu pubblicata subito dopo dal figlio Christopher. Oltre ad essa, aveva anche redatto col collega Gordon un’edizione critica che includeva il glossario di tutti i termini nel difficile dialetto medio inglese del poema, oltre a commentare l’opera come una fiaba nella conferenza Sulle fiabedel 1939. Presentò nel 1953 un’ulteriore conferenza di grande importanza per l’interpretazione dell’opera, nonché poco tempo dopo a introdurre gli ascoltatori della radio BBC alla conoscenza della stessa.
Gli amanti di Tolkien che consultino la sua traduzione, o la versione italiana della stessa, edita da Mediterranee, noteranno che vi si parla di Terra di Mezzo, che vi sono menzioni di Orchi, Troll, Mannari, Uomini Selvatici, che anche qui si assiste a una tentazione legata a un anello d’oro, e forse, come hanno fatto alcuni studiosi, potrebbe venir loro in mente di paragonare Gawain a Frodo.
Ma soprattutto si troveranno cavalleria, magia, coraggio, amore, fedeltà, tradimento, pentimento: l’intera gamma delle situazioni esteriori e interiori che associamo al mondo di re Artù, e forse anche diverse cose che invece non ci aspettiamo affatto. Un mix che di per sé è quanto di più vicino si possa trovare agli ideali del tolkienista in questi giorni.
Allora cosa aspettiamo? Montiamo, presto, su Gringolet, il prodigioso destriero di Gawain la cui criniera riflette i raggi del sole, e partiamo lesti al galoppo, diretti verso nuove avventure!
Perla
Un uomo affranto vaga per un paesaggio desolato senza una meta, proprio come uno di quegli erranti che pongono il dubbio d’esser perduti nella poesia che profetizza il Ritorno del Re di Gondor neIl Signore degli Anelli. Ma qui l’ombra non sprigiona scintille, né si trova fuoco che rinasca dalle ceneri: l’uomo sembra veramente perduto senza alcuno scampo, né se ne conosce il perché. In realtà, il paesaggio sterile e brullo, il senso di oppressione che evoca, l’erranza ben poco cavalleresca di questo signore: niente di tutto ciò è vero, ma si tratta di un sogno.
Lo capiamo perché l’autore dell’opera ce lo dice espressamente, ma l’avremmo capito anche da soli una volta che si scopre che l’uomo ha ormai perso ogni gioia e senso di vivere da quando “ha lasciato cadere la sua perla nel prato”, un modo molto poetico di dire che non ha potuto fare niente per evitare che sua figlia morisse in tenerissima età, due anni probabilmente, per un male imprecisato. Lo capiremmo da soli, già, perché ora quella stessa figlia ormai defunta gli è di fronte, dall’altra parte di un fiume impetuoso, e gli rivolge la parola, si, ma freddamente. Nessun “papà” affettuoso sulle sue labbra nuovamente rosee, nessun “caro babbo”, o simile formula, ma un neutro “voi” che sembra freddo come un maleficio.
Eppure, apriti cielo, il padre è felice come un bambino! La sua adorata figlioletta ancora viva! Già, perché lui, che si tratta di un sogno, lo ha scoperto solo più tardi, dopo che si è svegliato, e a quel punto il sogno era diventato così reale che il fatto stesso di essere un sogno, pur sapendolo, è passato in secondo piano. Ora quel sogno è più vero della realtà, e non perché la realtà non sia vera, ma perché il sogno non è solo sogno.
Come lo sappiamo? A meno di avere anche noi un sogno del genere, cosa poco raccomandabile, visto che comporta l’aver perso una persona cara in precedenza, si può leggere il poema Perla, di un anonimo poeta inglese di fine Trecento, non di troppo tempo posteriore a Dante e non troppo lontano dalla grandezza di questi, a dispetto del paradosso del destino che non ci ha voluto consegnare il suo nome.
Tolkien amò appassionatamente questo poema sin dalla prima lettura, e si dedicò ad esso per tutta la vita, tenendo lezioni su di esso, traducendolo in inglese moderno, dal momento che comprensibilmente è scritto in inglese medievale, e per di più in un dialetto molto difficile, ma non solo: Tolkien ne ha anche parlato per radio sulla BBC inglese e ha anche aiutato nella stesura di una edizione critica Eric Valentine Gordon, un suo collega universitario tanto dedito al lavoro da essere scherzosamente soprannominato da Tolkien “il diavolo industrioso”.
L’opera è pubblicata nella versione italiana della traduzione di Tolkien nel libro Sir Gawain e il Cavaliere Verde, con Perla e Sir Orfeo, editore Mediterranee. Si tratta di una versione in italiano molto gradevole e accessibile di una traduzione in inglese moderno, quella di Tolkien, che è un vero e proprio gioiello, anch’essa ordinabile da HarperCollins per chi conosca l’inglese. Invece, essendo un’opera così ostica nella versione originale in inglese medievale, è difficile che qualcuno ne voglia consultare l’edizione critica di Gordon, a parte gli studiosi. Ne esistono tuttavia anche altre traduzioni italiane, tradotte direttamente dall’inglese medievale senza passare per la versione di Tolkien, che sono anch’esse interessanti, per chi volesse approfondire un poco il poema e il suo straordinario autore.
Questo modernissimo poeta medievale rimasto ingiustamente sconosciuto, infatti, scrisse anche il poema cavalleresco Sir Gawain e il Cavaliere Verde, un’avventura mozzafiato di un cavaliere della Tavola Rotonda che si mette sulle tracce di un misterioso cavaliere senza testa dalla pelle verde, oltre a due poemi di argomento biblico intitolati Pazienzae Purezza, rispettivamente ispirati al libro di Giona, il profeta divorato dalla balena che ispirò anche il famoso episodio di Pinocchio, e al libro di Giuditta, la storia della donna che salvò il suo popolo dall’invasione assira seducendo il comandante assiro per poi ucciderlo.
Questo poeta trae sempre una morale dalle storie che racconta. Per la storia del Cavaliere Verde, il messaggio è di tener fede alla parola data, altrimenti come Gawain potrebbe toccarvi di perdere tutta la reputazione conquistata in una vita. Per Pazienza, la morale è quella espressa nel titolo: se pensate di avere motivo di perdere la pazienza, cosa avrebbe dovuto fare Giona inghiottito da una balena? Per Purezza, un messaggio che oggi diremmo salutista: abbiate sane abitudini, non esagerate nel mangiare o nel bere, o magari vi capiterà come a Oloferne, comandante di Nabuccodonosor, sedotto e convinto a ubriacarsi da una donna straniera che poi lo decapita. Infine, abbiamo Perla, portatore di un grande messaggio di speranza: qualsiasi cosa brutta vi possa capitare, anche la peggiore, come perdere una figlia di due anni, c’ sempre motivo di continuare a vivere, perché la vita può riservare tante sorprese.
E questo, oltre ad essere apprezzato molto da Tolkien, una persona che di lutti ne aveva avuti tanti, nel mare di disperazione e di disfattismo in cui certuni vorrebbero ci si abbandonasse oggi, è un messaggio estremamente attuale.
Sir Orfeo
Tutti bene o male conoscono il mito greco di Orfeo ed Euridice: il leggendario musico la cui moglie gli fu strappata anzitempo, che scese fin nelle viscere dell’Ade, armato solo della sua cetra, e strappò la bella Euridice alle mani del dio dei morti con la bellezza della sua musica solo per perderla quando, voltatosi indietro sulla via del ritorno per sincerarsi la compagna lo seguisse, con ciò violò l’unica condizione imposta dal dio per un felice esito della storia e dunque si condannò al fallimento.
O almeno questo è quanto si tramanda da parte di alcuni autori greci e latini: il mito, come spesso accade, conosceva diverse varianti e diversi finali. Una di queste è conservata in redazione medievale proprio con il titolo di Sir Orfeo, e i più attenti noteranno fin da subito che c’è qualcosa di strano, non appena verso l’inizio viene detto che Sir Orfeo è re di una città inglese.
Ohibò, e chi lo sapeva? Si chiederà qualcuno, da sempre convinto che il famoso musico fosse semmai originario della Tracia. Ma non è con questo spirito che bisogna avvicinare un simile capolavoro. Le storie si tramandano e mutano nel diffondersi, un pò come nel gioco che facevamo da bambini in cui ci mettevamo in cerchio, il primo sussurrava una parola all’orecchio di chi gli stava a fianco, che a sua volta ripeteva la stessa parola a chi era più in là, fino a tornare dopo tutto il giro al primo… con la parola che era completamente cambiata!
Con le storie, le leggende, i miti, e le fiabe succede sempre così. Quasi tutti gli Ulisse che arrivino in Inghilterra sono inglesi, così come gran parte degli Artù che pervengano in Grecia parlano greco. Ma questa è una ricchezza, piuttosto che un difetto, e non fa che provare l’inesauribile fascino e complessità delle tradizioni europee e di tutto il mondo.
Con questo spirito, possiamo allora affacciarci a un canto (lai) di origine bretone, vale a dire della regione del nord della Francia chiamata Bretagna, da non confondere con la Gran Bretagna. Tale canto fu composto da un menestrello sulla base di racconti giunti da sud che riguardavano un musico dal talento straordinario che aveva sottratto sua moglie alle grinfie della morte con la sua cetra.
E ora cosa succede? La storia si mescola alle tradizioni bretoni, impregnate di re Artù, Merlino, Morgana, elfi, fate, folletti, e chi più ne ha più ne metta, e così Dama Heurodis, come diventa Euridice in questa storia, stranamente non viene rapita dai morti, ma dagli elfi, e condotta nel loro reame sotterraneo. Che gli elfi vivano sottoterra forse non sorprenderà chi conosce un pò le leggende irlandesi, dove spesso è sottoterra, o sotto una pietra, che si incontrano i folletti, piuttosto che nelle foreste del fantasy.
E così Sir Orfeo parte alla sua ricerca e, quando scopre l’accesso al mondo sotterraneo, nella sua descrizione si fondono: 1) la descrizione dell’Ade dell’originale greco; 2) le descrizioni dei palazzi elfici che dovevano abbondare nelle storie che questi menestrelli udivano, ma a noi non sono giunte quasi per niente; 3) tradizioni che volevano gli elfi come guardiani dell’oltretomba, se non proprio spiriti dei morti.
Inutile dire che il mix, molto peculiare, non poteva che colpire l’attenzione di un amante degli Elfi come Tolkien, che immediatamente decise che avrebbe tradotto la versione medioinglese del canto bretone in inglese moderno. Di questa traduzione si può leggere l’ulteriore traduzione italiana nel volume di Mediterranee. Bell’intreccio, eh? D’altronde, il canto bretone è andato perduto, e la versione medioinglese è l’unica che ci resta per tuffarci sottoterra come topi di Hamelin dietro al suono di quella che è ormai divenuta l’arpa di Orfeo… e chissà, che stavolta la storia non abbia un finale diverso?
https://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2018/12/GawainPerlaOrfeo-e1545236126166.jpg200800Gianluca Comastrihttps://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2016/06/logo_sti2.pngGianluca Comastri2018-12-19 17:17:292018-12-19 17:17:29Invito alla lettura delle traduzioni di Tolkien
Chiunque si sia avvicinato al mondo degli appassionati tolkieniani negli ultimi vent’anni non può aver ignorato il notevole contributo in fatto di arte, sensazioni ed emozioni che Giuseppe Festa ha donato a tutti coloro con cui è stato in contatto. Ormai le manifestazioni e gli eventi che ha impreziosito con le sue note e le sue parole, comprese diverse edizioni di Hobbiton, non si contano più. E anche se ormai la sua strada ha preso un’altra direzione, leggerete dalle sue stesse risposte che ad ogni modo tra i Tolkieniani Italiani lui c’è sempre stato e sempre ci starà: il suo percorso e quello del Professore hanno davvero tanto in comune. Scopritelo dalle sue risposte alle domande sapienti di Giuseppe Scattolini.
Giuseppe Festa è un nome molto noto tra i tolkieniani, soprattutto per le musiche dei Lingalad in “Voci dalla Terra di Mezzo”. Io le adoro per vari motivi: i testi sono quelli di Tolkien, le melodie sono molto belle, l’ambientazione naturale e paesaggistica di molte di esse le rende uniche, e il Professore le avrebbe certamente apprezzate (la figlia Priscilla lo ha fatto). Quando nasce il progetto per la registrazione del cd “Voci dalla Terra di Mezzo”, e quali sono la storia passata, il presente e gli obiettivi futuri dei Lingalad?
Ho scritto i primi brani nel 1998, semplicemente per cantarli davanti al fuoco con gli amici, o durante qualche passeggiata nei boschi. Erano Beren e Tinuviel, La via prosegue senza fine e Montagne di luna inondate. Fu un amico a convincermi a farne un cd. Era un periodo di particolare ispirazione e ricordo che in una sola settimana composi tutte le altre tracce dell’album. Una volta pubblicate, cominciarono a girare online (eravamo agli albori di internet) e subito arrivarono delle richieste per suonarle dal vivo. Così chiesi al mio amico Fabio Ardizzone di formare un duo e provare a costruire un concerto acustico a lume di candela, proprio come degli Hobbit in una locanda della Contea. Quando le date cominciarono ad aumentare, richiamammo il batterista che suonava con noi ai tempi del liceo e con cui eravamo sempre rimasti in contatto, Giorgio Parato. Fu così che nacquero ufficialmente i Lingalad. La svolta del nostro percorso artistico avvenne nel 2003, quando ricevemmo un invito a suonare in America alla prima del film Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re. Quell’evento attirò l’attenzione dei media italiani e ci permise di farci conoscere di più.
Negli anni abbiamo aumentato l’organico del gruppo e abbiamo percorso sentieri anche lontani da Tolkien, ma sempre nutrendoci del forte potere evocativo della natura che troviamo nelle sue pagine. Il futuro è fatto del video di un concerto che pubblicheremo a breve e di un cd celebrativo dei nostri 20 anni di musica. Poi, chi lo sa? La via prosegue senza fine…
Oltre che cantante, Giuseppe, sei anche uno scrittore. Io in particolare ho letto “La luna è dei lupi”, che ho apprezzato tantissimo e per i tanti suoi aspetti. Parlaci un po’ dei tuoi romanzi, del loro significato, dello stile in cui li scrivi, e soprattutto del perché li scrivi: che cos’è che ti fa amare tanto la natura, e cosa ha da dire essa al cuore dell’uomo secondo te?
Ho sempre raccontato storie attraverso le mie canzoni, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di più spazio per descrivere personaggi, trame e sotto trame. Così è nato Il passaggio dell’orso (Salani), il libro che ha segnato il mio esordio. Non pensavo che la scrittura sarebbe diventata il mio lavoro, ma alla fine è andata proprio così. Anche nei miei libri, come nella musica, i protagonisti assoluti sono il rapporto uomo-natura, gli animali, le foreste secolari. Sono convinto di amare così tanto la natura perché sono nato e cresciuto a Milano. Mi è mancata davvero tanto, soprattutto quando tornavo in città dopo i week end trascorsi dai miei nonni, che abitavano in un piccolo paradiso nei boschi, sul Lago d’Iseo.
A vent’anni feci un’esperienza di volontariato al Parco Nazionale d’Abruzzo e quei giorni ribaltarono la mia vita. Tornai e cambiai città, università e lavoro. Lasciai la facoltà di Ingegneria (con “grandissima gioia” di mio papà ingegnere) e virai su Scienze Naturali, dandomi all’educazione ambientale nelle scuole. Quell’esperienza al Parco ispirò anche Il passaggio dell’orso, che racconta la storia di un ragazzo di città alle prese per la prima volta con le foreste abruzzesi e i suoi orsi.
Negli ultimi anni ho scritto diversi romanzi, mentre l’ultimo nato, I figli del bosco (Garzanti), appartiene al genere non-fiction e racconta la storia vera di due lupi, che ho avuto la fortuna di vivere personalmente.
Dando uno sguardo sul tuo sito personale, http://www.giuseppefesta.com/, leggo che sei anche un educatore ambientale. Parlaci un po’ di questa tua professione: che cosa significa essere degli educatori ambientali oggi? E soprattutto: a parer tuo c’è una sorta di educazione ambientale ed all’amore per la natura in Tolkien?
Tolkien è stato un educatore ambientale ante litteram, e lo considero un mio maestro. Nelle mie attività con i bambini cerco di riempire di contenuti “magici” gli elementi naturali. Fin quando considereremo un albero solo un insieme di vasi del legno, linfa e cellulosa, faticheremo a creare con lui un legame emotivo. Bisogna coltivare i sentimenti per la terra prima di seminare i concetti ecologici. I bambini di oggi sono molto lontani dalla natura, spesso possono vederla solo attraverso lo schermo dei loro device tecnologici. Eppure in loro c’è una carica selvaggia incredibile e basta poco per abbattere quelle barriere attitudinali che li dividono dalla natura.
Purtroppo, se superano una certa età senza aver avuto esperienze significative e positive con la terra, allora il legame si spezza definitivamente. Dobbiamo agire prima, fargli vivere il bosco e gli animali come un’esperienza emotiva piacevole, divertente, sorprendente e appagante. Solo così avremo degli adulti con la voglia di adottare comportamenti sostenibili nei confronti del Pianeta. Conosciamo ciò che studiamo, ma proteggiamo solo ciò che amiamo.
Che bello se ognuno di noi potesse avere anche soltanto una briciola del rispetto e l’amore che gli Elfi nutrono per i loro boschi.
Venendo invece alla tua sensibilità, qual è il tuo modo di approcciarti ai testi Tolkieniani? Ad esempio, c’è un passo del Signore degli Anelli in cui Tolkien fa la stessa cosa che fai tu nei tuoi romanzi. Nel capitolo “In tre si è in compagnia”, cito: “Qualche piccolo essere incuriosito si avvicinò ad osservarli quando si fu spento il fuoco. Una volpe, che attraversava il bosco per affari suoi personali, si arrestò qualche minuto ad annusare. «Hobbit!», pensò. «Incredibile! Avevo sentito dire che avvenivano strane cose in questo paese, ma trovare addirittura degli Hobbit che dormono all’aria aperta sotto un albero! E sono in tre! C’è sotto qualcosa di molto strano». Aveva perfettamente ragione, ma non riuscì mai a scoprire che cosa.” (traduzione Bompiani 2002) Quando leggi queste righe, quali sono le sensazioni che ti danno? Come stimolano la tua immaginazione?
Nei miei romanzi (e anche nelle canzoni) ho sempre cercato un ribaltamento di prospettiva, provando a immaginarmi i pensieri degli animali, il loro giudizio su di noi e sul nostro mondo. Ho anche provato a immaginarmi i pensieri di elementi naturali come un albero, un fiume o una montagna (come nel cd Lo spirito delle foglie). Ovviamente ognuno di questi elementi naturali può essere visto come una tipologia umana in cui riconoscersi: il vecchio lupo alla ricerca di un branco, la giovane aquila pronta a spiccare il volo, la foglia che riflette sul passare delle stagioni e sul suo destino che la porterà ad essere parte del tutto e a rinascere sotto forme diverse.
Metterci nei panni degli altri ci aiuta a comprendere meglio la realtà che ci circonda. La stessa cosa, esasperandola al massimo, l’ho fatta nel libro che hai citato prima, La luna è dei lupi, dove gli animali parlano e riflettono sul mondo degli umani. Il libro diventa così uno specchio di noi stessi. E il lupo è, a mio parere, il miglior animale in cui specchiarci, visto che nei suoi occhi, ne sono certo, possiamo vedere una parte di noi che abbiamo perso. Scorgiamo un’empatia col mondo naturale, uno spirito di libertà che un tempo era nostro ma che ora abbiamo smarrito. Non dovremmo temere il lupo, ma l’esserci allontanati dal nostro essere lupi.
Per chiudere vorrei chiederti questo: quando Barbalbero dice di non stare dalla parte di nessuno, perché nessuno è dalla sua parte, a te cosa fa venire in mente?
Penso a un essere straordinario, uno dei più riusciti di Tolkien, che in questo caso non dice del tutto la verità: Barbalbero sa benissimo da che parte stare, e quando viene il momento di passare all’azione, lo fa con la massima forza e determinazione. Dovremmo prendere esempio da lui. Noi umani stiamo attraversando un momento storico che assomiglia molto a una lunghissima Entaconsulta. Si discute da anni su cosa fare per affrontare gli sconvolgimenti climatici che stiamo provocando noi stessi. Speriamo che alla fine delle discussioni si possa partire in una direzione precisa e marciare verso Isengard. Prima che sia troppo tardi.
https://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2018/10/A3AC7C55-32BB-4390-96EB-DD348FB6D994.jpeg5501920Gianluca Comastrihttps://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2016/06/logo_sti2.pngGianluca Comastri2018-12-10 10:01:572018-12-10 10:01:57Tolkieniani Italiani - intervista a Giuseppe Festa
Stando a una recentissima segnalazione, le opere di J.R.R. Tolkien verranno inserite in una delle più importanti risorse bibliografiche francesi: la notizia, comparsa sia sulla stampa che in Rete e sui social network, ci dice che le pagine più belle del nostro amato Professore finiranno a far compagnia ai volumi riportati qui sopra (immagine di LPLT diffusa via Wikimedia Commons):
Tutto è partito da un trafiletto sul quotidiano transalpino Le Figaro, condiviso venerdì 23 novembre da Tolkiendil sulla pagina Facebook dell’omonima associazione che, come noi e i nostri “partner strategici”, si occupa di promuovere l’opera di J.R.R. Tolkien sul suo territorio.
Per tutti i particolari su questo pregevole annuncio rimandiamo alla lettura dell’articolo completo su Tolkien Italia:
Il nostro ciclo di interviste aggiunge un tassello pregiato: Greta Bertani ha avvicinato un altro pioniere della diffusione delle opere del Professore in Italia, nonché amico di vecchia data, portando tra le pagine dei Tolkieniani Italiani il contributo offerto dalla perizia di Paolo Pugni. Se il nome non vi dice nulla non preoccupatevi e leggete tutto quel che segue, abbiamo fatto in modo che raccontasse a dovere di sé.
Buongiorno Paolo, forse non tutti conoscono la tua passione per Tolkien, che è nata molti anni fa. Tu hai tradotto, assieme a Franca Malagò, l’edizione italiana della Biografia di Tolkien scritta da Humphery Carpenter ed edita da Ares già nel 1991. Ci puoi raccontare com’è stata questa esperienza e cosa ti ha lasciato? Tu nella vita sei consulente aziendale, aiuti le aziende nelle strategie di marketing. Cosa ti sei portato nella vita di ogni giorno anche quando ti dedicavi ad altro?
Avevo avuto la fortuna di leggere la biografia di Carpenter in inglese e me ne ero innamorato: quando un libro ti appassiona al punto da tormentarti, allora l’autore diventa un grande amico. Vorresti averlo accanto a te per fargli mille domande e proseguire nel racconto. La biografia di Carpenter fu la risposta a queste mie aspettative. Logico che proposi subito di tradurla per renderla disponibile agli appassionati italiani. Era giù uscito l’altro delizioso lavoro del medesimo autore sugli Inklings con Jaca Book. Tradurre è stato entrare nella caverna del drago per dare senso a tutta l’opera di JRRT. E ci siamo sentiti in obbligo di avere una cura speciale per ogni vocabolo, così come sia Carpenter che soprattutto JRRT l’avevano messa nella loro scrittura. Mi ha lasciato una attenzione particolare per il linguaggio, prolungando un segno già impresso dal corso di scrittura che avevo seguito con Giuseppe Pontiggia nel 1988. All’epoca ero ancora un dipendente. Mi occupavo di marketing dentro una multinazionale e tradurre era un modo per portare il sogno e la passione dentro il lavoro. Lavoravamo in coppia in modo molto stravagante per l’epoca. Io traducevo registrando audiocassette (sì, quelle vecchie per le quali serviva a volte la… matita) e Franca sbobinava la mia traduzione mettendo ordine e riformulando il testo per renderlo migliore. E’ stato anche un modo per essere insieme durante le mie trasferte.
Sei persona dalle mille attività: consulente aziendale e ti occupi di marketing, sei autore di saggi su disparati argomenti (ecologia, vita di coppia, marketing). Tra queste cose so che, assieme a tua moglie Franca, tenete incontri di formazione per coppie e genitori. Sappiamo che Tolkien e sua moglie Edith erano entrambi orfani, e, nella biografia, ci vengono accennate le loro paure ed i loro desideri rispetto all’educazione dei figli. Ipotizziamo di annullare spazio e tempo e che tu e Franca vi trovaste davanti la giovane coppia formata da Ronald ed Edith, gravata della notevole responsabilità di crescere dei figli e cementare una famiglia in un momento di seria recessione economica. Che consigli ti sentiresti di dare loro?
Wow! Che domandone! Quello che posso suggerire a loro, come a tante coppie di oggi, è di credere alla loro unione. Come peraltro Beren e Luthien, chiamiamoli così, fecero. Loro contro il mondo. Se la coppia non è forte, la famiglia fa fatica. Insieme si affrontano tutte le sfide con le quali la vita può provocarci. Spiegheremmo loro, che già ben lo sapevano avendolo vissuto sulla loro pelle, che la vita sa essere difficile, ma il loro amore è sicuramente più forte finche lo tengono come sostegno per ogni fatica. Confidando in Dio. Annunceremmo loro che commetteranno tanti errori nell’educazione dei figli, ma se avranno veramente a cuore il loro bene, la somma sarà positiva. Per la verità, più che incontrarli come giovane coppia per consigliarli, preferirei incontrarli in riva al mare nella loro vecchiaia per farmi dire come hanno fatto ad arrivare sin lì con tanto coraggio e successo.
La fede di Tolkien è evidente, non solo dalla sua vita ma anche, sebbene in maniera meno esplicita, nelle sue opere. Credi che egli oggi possa ancora costituire un esempio per le nuove generazioni che, magari anche grazie alle trasposizioni cinematografiche, si avvicinano in questi anni? A tal proposito, credi che il successo delle trilogie di Peter Jackson e la tanto annunciata serie tv possano contribuire a far avvicinare i giovani all’approfondimento delle opere di Tolkien seguendo un metodo serio, oppure che essi possano accontentarsi di un tipo di fruizione più superficiale?
Il problema non sta nelle opere di JRRT né nella trasposizione in video. Il problema sta nella capacità di chi legge, ascolta, vede di andare oltre la superficie. Io posso anche riempire le mie opere di simboli e segni, ma se nessuno li coglie…. Non ho idea di come sarà la nuova serie tv, i film di Jackson li ho trovati splendidi e fedeli. Certo che se, come scrisse Paola Mastrocola in La scuola spiegata al mio cane, ad una generazione che sospira “c’è del marcio in Danimarca” quella nuova risponde “bhe, ma perché andare sino in Danimarca?” fraintendendo completamente la citazione dell’Amleto, non c’è più partita. Io mi auguro che siano da stimolo almeno per pochi. Così come fu per me: vidi una sera in tv, non riuscivo a dormire, una trasmissione che proponeva i nuovi film in distribuzione. Uno di questi era il cartone animato del Signore degli anelli: la versione di Ralph Baski del 1978. Rimasi folgorato. Andai a vederlo da solo al cinema Piccolo Eden di largo Cairoli a Milano. Il film si fermava al rapimento degli hobbit da parte degli orchi, o poco più in là. Uscii perduto dal cinema. Il giorno dopo alla libreria Puccini di corso Buenos Aires comperai la trilogia. Mi ricordo così bene questi particolari? Come due giovani che incontrarno un amico speciale “erano circa le quattro di pomeriggio”.
Tra gli studi tolkieniani in Italia, dall’inizio ad oggi, cosa trovi interessante e cosa a tuo giudizio manca o, piuttosto, si dovrebbe mettere in cantiere? Cosa pensi delle pubblicazioni delle tre grandi storie del Silmarillion curate negli ultimi anni da Christopher Tolkien?
Confesso: conosco poco. Ho dovuto fare scelte nella vita e dopo un intenso periodo tolkeiniano, culminato con la presenza insieme a grandi personaggi al convengo per i centenario della nascita di Tolkien che si svolse al Centro Culturale Manfredini il 28 novembre 1992, insieme a me parlarono quel giorno il cardinal Biffi, Franco Cardini, padre Guido Sommavilla e Raffaele Vignali, dovetti concentrarmi sul lavoro e perdere di vista gli studi Tolkeniani. Apprezzo comunque i nuovi saggi pubblicati, credo che ci sia ancora molto da raccontare e spiegare.
Questa intervista viene pubblicata sul sito STI, e fa parte di una serie di altre interviste la cui realizzazione è nata all’interno di un gruppo di studiosi raccolti attorno ad una giovane ma promettente associazione: I Cavalieri del Mark, gruppo locale marchigiano, ma con una forte presenza sui social e che collabora con molti studiosi italiani. Quanto credi che sia importante una rete interconnessa di studiosi, una sorta di gruppo di studio in cui le singole persone possono confrontare le loro idee?
Tantissima, specie oggi dove la comunità è stata riscoperta e rilanciata. Aiutarsi nel approfondire ciò che si ama è un dono per tutti.
Tolkien non immaginò per noi solo eroi, gloria e splendore, ma raffigurò la speranza in seguito alla rovina e alla tragedia.
Tutto ebbe inizio con un finale.
La prima storia della Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien fu il racconto di un disastro, scritto “in ospedale, in licenza dopo essere sopravvissuto alla Battaglia della Somme.” La sua “prima vera storia di questo mondo immaginario” narrava la distruzione della città nascosta di Gondolin, la più grande tra le città elfiche nelle terre mortali e l’ultima roccaforte contro Morgoth, il Grande Nemico. Il racconto non fu mai completato del tutto, sebbene sia citato in entrambi Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Questa saga di sciagura e speranza ben si adatta al tono e all’ambientazione della creazione di Tolkien. Le sue storie di mostri ed eroi illuminano la condizione morale del genere umano meglio di quanto non facciano le opere della nostra attuale cultura pop per adolescenti. Il problema non è più l’ambiguità del bene, quanto la mancanza della volontà di realizzarlo.
I vari frammenti e versioni della storia vengono ora pubblicati insieme. Ne La caduta di Gondolin l’anziano Christopher Tolkien ha curato, per l’ultima volta, un’opera incompiuta del padre. Egli aveva descritto la sua precedente fatica, Beren e Lúthien, come “presumibilmente” l’ultima; adesso scrive, “a novantaquattro anni, La caduta di Gondolin è (indubbiamente) l’ultima.” La narrazione completa nel dettaglio era presente esclusivamente nella prima versione della storia, ma quella versione è solo una bozza, risalente a un’epoca in cui Tolkien non aveva ancora definito né il materiale né lo stile. Negli anni successivi scrisse versioni sommarie o parziali della storia, e nell’incompleta redazione finale si avvicina allo stile maturo della sua miglior prosa elevata, della quale era ormai maestro.
Questo volume include anche materiale che colloca il racconto nel contesto della creazione tolkieniana più ampia. Vale la pena leggere questi frammenti aggiuntivi, anche da parte di chi ha già familiarità con la storia dei Giorni Antichi contenuta ne Il Silmarillion, poiché La caduta di Gondolin contiene frammenti di mitologia elfica, di storia e persino di escatologia non inclusi in quel volume. Nel complesso, la raccolta di testi e i commenti di Christopher Tolkien, assieme alle magistrali illustrazioni di Alan Lee, fanno di questo libro un’ultima degna aggiunta al canone tolkieniano.
La pubblicazione de La caduta di Gondolin fa seguito all’annuncio dell’anno scorso del passaggio del controllo della Tolkien Estate a una nuova generazione, la quale sembra aver maggior volontà di sfruttare il potenziale lucrativo delle licenze rispetto a Christopher e suo padre. E sembra improbabile che i capitani dell’industria dell’intrattenimento, ai quali mancano la visione e l’immaginazione morale di Tolkien, possano produrre buoni adattamenti.
Ma avremo sempre i libri.
Eärendil: un esempio di speranza e misericordia
Sia Lo Hobbit sia i tre volumi de Il signore degli anelli sopravviveranno come grandi opere pur mentre la letteratura (teoricamente) importante dell’ultimo secolo sarà per lo più dimenticata. Le creazioni fantastiche di Tolkien saranno pure immaginarie per soggetto e stile, ma la loro sostanza è reale. Le sue storie di elfi, orchi, maghi e anelli magici sono al tempo stesso più insolite e più immediate della letteratura, in teoria, seria del suo tempo. Egli scrisse degli Hobbit come se li avesse conosciuti per tutta una vita, e degli Elfi come se avesse fatto loro visita svariate volte; i suoi contemporanei scrivevano di uomini e donne comuni come se non ne avessero mai incontrato uno.
La caduta di Gondolin mostra quanto autentica fosse la familiarità di Tolkien con queste creature. Tolkien, nella sua immaginazione, aveva fatto visita agli Elfi per molti anni. La ricca trama de Il Signore degli Anelli scaturisce dalle profondità della creazione di Tolkien. Egli aveva scritto la mitologia e la storia del mondo che aveva creato, e ne aveva persino plasmato i linguaggi. Per questo motivo i riferimenti alla storia della terra di Mezzo suonano come reali, e le parole, le frasi, e persino le poesie nelle lingue da lui inventate sembrano autentiche, piuttosto che un frettoloso miscuglio di sillabe e suoni. Gli scorci delle antiche leggende sembrano reali perché quelle stesse leggende sono state create con cura ed intessute nell’intreccio di quel mondo. La rivelazione postuma della vasta creazione di Tolkien arricchisce la lettura delle sue opere concluse.
Gondolin ed il suo tragico destino furono parte del mondo di Tolkien sin dall’inizio, ed il racconto divenne un ponte tra i suoi protagonisti hobbit ed il lontano passato del mondo che abitavano— un passato che era andato per lo più perduto a cagione del tempo e della violenza. Per i lettori de Lo Hobbit, La caduta di Gondolin rappresenta il primo sguardo desolato nel lontano passato della Terra di Mezzo, nel momento in cui Elrond identifica le spade prese ai troll come “lame molto antiche degli Alti Elfi dell’Ovest, la mia gente. Furono fatte a Gondolin . . . draghi e goblin distrussero la città molti anni fa.” Il Signore degli anelli è ancor più velato dal passato, comprese le storie inedite di Gondolin. Come Elrond dice a Frodo, “la mia memoria arriva persino ai Giorni Antichi. Eärendil era il mio Sire, nato a Gondolin prima della sua caduta.”
Ed Eärendil era figlio di Tuor, l’eroe de La caduta di Gondolin. Tuor era un uomo di grandi capacità e nobile ascendenza che fu inviato nella città nascosta di Gondolin con un messaggio profetico di speranza per gli Elfi esiliati della Terra di Mezzo. Se avessero marciato tutti insieme contro Morgoth, avrebbero ricevuto aiuto dai Valar, i guardiani angelici e signori del mondo.
Eppure, sebbene Tuor fosse divenuto grande tra gli Elfi della città, tanto persino da sposare la figlia del re, la sua missione fallì poiché il re amava troppo la sua grande città e non l’avrebbe messa in pericolo andando in guerra. Il macabro risultato della vicenda è indicato dal titolo del racconto, poiché Gondolin fu scoperta, tradita, e distrutta dalle forze di Morgoth in una tremenda battaglia. Per quanto Tuor e la sua famiglia riuscissero a fuggire con quanto restava del loro popolo, il trionfo di Morgoth pareva completo.
Cionostante, dalla desolazione e dalla disperazione, un’inattesa speranza sorse dall’unione di Uomini ed Elfi. Eärendil nacque da un uomo mortale e un’immortale fanciulla elfica (unione rara e sempre portentosa nella Terra di Mezzo). Come rappresentante di entrambi i popoli, egli viaggiò per nave fino alla dimora dei Valar nel remoto Occidente e invocò il perdono per gli Elfi esiliati e l’aiuto per i popoli della Terra di Mezzo. E i Valar mossero guerra contro Morgoth e lo bandirono dal mondo.
Tolkien non compose mai il racconto di Eärendil eccetto che nella forma di un riassunto (i lettori de Il Signore degli Anelli probabilmente ricordano che Bilbo compose dei versi a riguardo). Sarebbe stato la trionfale conclusione dei racconti dei Giorni Antichi di Tolkien, pieni di eroismo nel mezzo della sofferenza, del dolore e della tragedia. La storia della caduta di Gondolin è sempre stata ben più che un racconto tragico di eroica sconfitta. Quando ogni resistenza appariva inutile e la speranza perduta, i sopravvissuti di Gondolin trovarono la misericordia divina e il soccorso. Dalla distruzione di Gondolin venne la rovina di Morgoth.
La realtà morale (nostra e di Tolkien)
Questa è la visione morale che plasma la creazione di Tolkien. Contrariamente a quanto alcuni critici affermarono, Tolkien non presenta un universo morale semplicistico—buoni contro cattivi. Le mostruose manifestazioni fisiche del male nell’opera di Tolkien non nascondono i conflitti morali nel cuore degli uomini (o elfi, nani, hobbit, e così via) ma li illuminano. La minaccia dei mostri mette gli uomini alla prova. Le sfide morali su cui Tolkien si concentra sono il compiere il bene quando il male appare una soluzione più facile, il resistere al male quando opporsi sembra inutile, e l’evitare di compiacersi quando sembra inevitabile farlo.
Il potere a tratti soverchiante del male—fisicamente incarnato nei Signori Oscuri (Morgoth e poi Sauron) e nei mostri da loro creati e comandati—deve essere fronteggiato anche quando il suo trionfo sembra ineludibile. Non possiamo affidarci alla segretezza delle fortezze, il cui proposito è di preservare e coltivare la forza che alla fine dovrà affrontare il male. E sebbene il coraggio che consiste nel non temere personalmente di affrontare il nemico sia importante per coloro che combattono il male nel mondo di Tolkien, non è comunque sufficiente. Turgon, il re di Gondolin, senza dubbio era coraggioso nell’affrontare la possibilità del proprio ferimento o morte in battaglia, ma non avrebbe messo a rischio la sua città, persino davanti alla promessa di una sconfitta definitiva del male per aiuto divino.
Ovviamente, un simile aiuto divino non viene sempre promesso, né nel nostro mondo né nella Terra di Mezzo. Non siamo padroni del mondo, e non possiamo sempre sapere quando la nostra lotta porterà frutto. Potremmo risultare inaspettatamente vittoriosi, oppure la nostra sconfitta potrebbe creare comunque le circostanze per una futura vittoria altrui. Ciò che non dobbiamo fare è arrenderci al male o alla disperazione. Nei racconti di Tolkien, i più grandiosi successi del male non richiedono solo mostri e macchinazioni, ma la debolezza e malvagità degli Uomini liberi, degli Elfi, e così via.
L’opera di Tolkien rende chiaro come la debolezza morale sia il reale problema della condizione umana, non i dilemmi e l’incertezza morale. Questi ultimi sono rari, la prima è dappertutto. Raramente commetto un torto perché non so cosa è giusto; spesso faccio un torto perché è una soluzione divertente, facile, o in altro modo seducente.
Tolkien non era un semplificatore della morale ma un realista. Poteva scrivere di tragedia e ambiguità morale (vedi I figli di Húrin, per esempio), ma sapeva che a noi principalmente manca la volontà di agire bene, piuttosto che la conoscenza di ciò che è giusto, e così i suoi racconti portano l’immaginazione morale in soccorso della volontà. Identificandoci con i suoi eroi, desideriamo scegliere di agire bene, ma ci viene costantemente ricordata la nostra capacità di cedere alle tentazioni e fare del male.
Le sue opere non riempiono i lettori di compiacimento della propria giustizia. I suoi eroi sono tali non perché siano moralmente incorruttibili, ma perché potrebbero essere corrotti (o certamente spinti alla disperazione, quando non al compiere il male), ma resistono alla tentazione. Ne Il Signore degli Anelli, Frodo alla fine soccombe all’Anello, ma viene salvato comunque in virtù della pietà che precedentemente aveva mostrato verso Gollum.
Un simile profondo universo morale ebbe inizio quando, sopravvissuto al fango e alla morte della Grande Guerra, Tolkien non immaginò per noi solo eroi, gloria e splendori, ma raffigurò la speranza in seguito alla rovina e alla tragedia.
La caduta di Gondolin è stata un nuovo inizio nella Terra di Mezzo.
L’autore
Nathanael Blake, PhD in Political Theory. Giornalista, i suoi articoli sono pubblicati su varie testate di rilievo come The Federalist e il Catholic World Report. Vive in Missouri.
I traduttori
Greta Bertani, laureata in Lingue e Letterature Moderne con tesi su Tolkien. Libera ricercatrice, traduttrice, e mamma. Nel 2011 esce la sua monografia Le radici profonde – Tolkien e le sacre scritture. Traduce in inglese il libro di Oronzo Cilli Tolkien l’Esperantista, pubblicato nel 2017. Collabora a diverso titolo con varie realtà tolkieniane italiane tra cui Ardalambion, Tolkien Italia e i Cavalieri del Mark.
Giovanni Costabile, laureato magistrale in Scienze Filosofiche. Libero ricercatore, scrittore, traduttore, pubblica articoli su Tolkien su riviste prestigiose come Tolkien Studies (2017), Inklings Jahrbuch (2017), Mythlore (2018). Relatore di conferenze, già membro attivo della Tolkien Society, Società Tolkieniana Italiana, Medieval Academy of America. Nel 2018 conduce ricerche presso la Weston Library di Oxford e di seguito pubblica la sua prima monografia, Oltre le Mura del Mondo : Immanenza e Trascendenza nell’opera di JRR Tolkien.
https://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2018/04/FallGondPrev.jpg450830Gianluca Comastrihttps://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2016/06/logo_sti2.pngGianluca Comastri2018-11-14 16:43:372018-11-14 16:43:37Vivere con una morale: una recensione de “La Caduta di Gondolin”
La serie di interviste dei TolkienianiItaliani prosegue con un nome ben noto ormai da lungo tempo tra gli appassionati: si tratta di PaoloGulisano, uno dei primi in Italia a scrivere e pubblicare su J.R.R. Tolkien. Di seguito le risposte alla serie di quesiti postigli da un GiuseppeScattolini particolarmente ispirato.
Paolo Gulisano: nel mondo tolkieniano sei conosciuto come un divulgatore di massimi livelli. Tuttavia, è sufficiente una piccola ricerca per vedere coi propri occhi quanto ampia e varia sia la tua produzione. Ed il tuo mestiere è fare il medico. Chi è allora Paolo Gulisano? Il medico? Il divulgatore? Lo studioso? Lo scrittore?
Sono un medico di professione e uno scrittore per passione. Potrei anche dire che sono un medico umanista:una categoria che si sta assottigliando in un tempo che vede un’evoluzione della medicina in senso sempre più tecnicistico, se non addirittura burocratico. Questo significa che il significato del mio lavoro è il “prendermi cura”, delle persone, naturalmente, ma potrei dire che mi prendo cura anche della cultura, della storia, e questo è il nesso col mio impegno di scrittore, di saggista, di divulgatore. Tutto all’insegna del prendersi cura, quindi.
Parlando della tua passione tolkieniana, come hai conosciuto Tolkien? Il Professore di Oxford è solo una tra le tante delle tue passioni o ha un posto privilegiato nel tuo cuore?
Ho conosciuto Tolkien alla fine del Liceo. Ero un appassionato di Miti e saghe antiche. Venni a conoscenza che un autore contemporaneo (Tolkien era morto 5 anni prima che leggessi Il Signore degli Anelli) si era cimentato in una riscrittura delle antiche leggende medievali. Sinceramente, ero un po’perplesso, ma grazie a Dio sono curioso e volli leggerlo: ne rimasi folgorato. Mi trovai ovviamente di fronte a molto di più che una semplice “rivisitazione” degli antichi miti, ma ad un’opera epica originale, straordinaria. Era uno dei libri più affascinanti che avessi mai letto, e tenete conto che di libri ne leggo veramente tanti. Posso quindi dire che Tolkien da allora ha occupato un posto davvero privilegiato nel mio personale orizzonte culturale e nei miei affetti. Certamente, ho anche altri interessi e autori che mi sono cari, ma molti di loro- come Lewis o Chesterton- si intrecciano col Professore di Oxford. Devo dire inoltre che la storia e la cultura delle Isole Britanniche ha sempre esercitato nei miei confronti una notevole attrazione, e la gran parte delle mie opere è dedicata a questi temi: dall’Irlanda alla Scozia, alla Letteratura Vittoriana. Da Oscar Wilde al Peter Pan di Barrie, dalle rivolte irlandesi all’indipendenza della Scozia, negli ultimi 20 anni mi sono mosso moltocon la penna tra Dublino e Oxford, tra Londra e Glasagow!
A partire dalla tua notevolissima esperienza e dai tanti incontri tolkieniani che hai tenuto fino ad oggi, qual è la tua opinione sull’impatto che la cinematografia tolkieniana ha sui tolkieniani? E non penso solo alle due trilogie di Peter Jackson, ma anche al precedente film di Ralph Bakshi, e al presumibilmente prossimo biopic sul giovane Tolkien e alla serie tv che dovrebbe uscire nel 2020, oltre che alle fan-fiction come l’eccellente “Born of Hope” e le altre minori, a parer mio, come “I diari della Terza Era” e “La caccia a Gollum”.
Sicuramente la cinematografia ha avuto un impatto potente sull’immaginario dei lettori, specialmente quelli più giovani; se chiedessimo ad uno di questi lettori di descriversi ad esempio Aragorn, credo che nella quasi totalità dei casi verrebbe fuori il ritratto di Viggo Mortensen, e così per gli altri personaggi. La mia generazione invece aveva negli occhi le illustrazioni dei grandi disegnatori. Il grande merito delle trilogie jacksoniane è stato quello di diffondere ad un pubblico vastissimo l’opera tolkieniana. Gli Elfi, i Nani, nonchél’idea stessa di un mondo che non esiste ma che è plausibile si è diffuso, è diventato parte dell’immaginario collettivo, e un lettore di narrativa fantastica non è più visto come un personaggio strano ed eccentrico, da compatire. Credo che anche le produzioni in divenire potranno contribuire a realizzare quello per cui personalmente mi batto da tanto tempo: mostrare Tolkien come un vero e proprio Classico della Letteratura.
Riguardo invece a due grandi di cui hai scritto, John Henry Newman e Gilbert Keith Chesterton: sappiamo per certo che entrambi influirono su Tolkien, e che lui li conosceva molto bene. Secondo te, come e in quale misura il Professore di Oxford è stato influenzato, anzi, dirò meglio, educato da questi due grandissimi pensatori?
Molti critici ed interpreti tolkieniani hanno sottolineato l’importanza delle fonti narrative sull’opera di Tolkien: i miti nordici, l’Edda, il Kalevala. Tutto vero. Ma egli non sarebbe diventato l’Autore che conosciamo senza altri fondamentali contributi avuti nella sua formazione culturale e umana. Al massimo sarebbe diventato uno studioso ancora più prestigioso, autore di grandi lavori esegetici. Uno straordinario filologo. Invece divenne un eccezionale romanziere, e questo anche grazie a questi due maestri, Newman e Chesterton. John Henry Newman, il fondatore dell’Oratorio di Birmingham, una delle scuole frequentate dal piccolo Ronald, arrivò a lui attraverso la mediazione della madre, che si era convertita al Cattolicesimo proprio grazie al grande teologo, e alla mediazione del suo tutore e mentore, padre Francis Xavier Morgan. Tolkien crebbe nello spirito di Newman, che è uno spirito di ricerca della verità, e di affidamento alla luce gentile della Fede. Fu la religiosità di Newman – solida, ortodossa, intellettualmente vivace- ad educare ed edificare la coscienza e il senso religioso di Ronald. Chesterton, invece, di cui Tolkien fu attento lettore, gli aprì la prospettiva dell’immaginazione. Un’immaginazione che non è finalizzata solo alla rievocazione di battaglie e dinastie del passato, ma diventa strumento per indagare nel cuore di ogni creatura, per descrivere vizi e virtù, per ritrarre la condizione umana. Una fantasia che non è fuga dalla realtà, ma apertura di prospettive. Tolkien stesso riconosce questo debito nei confronti di G.K. Chesterton nel suo fondamentale saggio sulla letteratura fantastica pubblicato in Albero e foglia.
Infine: ti sto intervistando per conto dei Tolkieniani Italiani. Siamo sul sito STI, io sono il presidente dei Cavalieri del Mark, ed a pubblicare questa intervista sarà Gianluca Comastri, di Eldalië. Tolkieniani di tutta Italia non legati da nessun vincolo che non sia la comune passione tolkieniana ed i medesimi valori leggeranno le tue parole, studiosi e appassionati. Pensi che questa nuova iniziativa possa andare lontano e mantenere le promesse?
Non solo lopenso, ma me lo auguro con tutto il cuore. Il mondo dell’associazionismo tolkieniano italiano ha una lunga storia alle spalle, nasce ben prima dei film e di tutti i fenomeni anche ludici (pensiamo ai Cosplay) che ne seguirono. Ha bisogno senz’altro di realtà competenti e appassionatein cui condividere questa passione, e Tolkieniani Italianiha tutte le caratteristiche per rappresentare questo desiderio.
L’attività dei Tolkieniani Italiani sul nostro sito inizia con l’intervista a un amico e autore di narrativa.
Sebastiano B. Brocchi, nato il 18 marzo del 1987, è originario di Montagnola (Svizzera) dove risiede tutt’ora. In terza liceo lascia gli studi per diventare scrittore e ricercatore autodidatta nel campo della storia dell’arte, della filosofia ermetica, della simbologia sacra e dell’alchimia interiore. Nel 2004 ha pubblicato la sua prima opera, il breve trattato “Collina d’Oro – I Tesori dell’Arte”. Negli anni successivi hanno visto la luce “Collina d’Oro Segreta” (2005), libro che ha suscitato scalpore nella cronaca ticinese, e “Riflessioni sulla Grande Opera” (2006), considerato dagli specialisti un testo magistrale di alchimia. É del 2009 il saggio, dedicato all’interpretazione esoterica delle fiabe tradizionali, “Favole Ermetiche”. Nel 2011 dà alle stampe la prima opera di narrativa, il giallo storico “L’Oro di Polia”, mentre nel 2012 prende avvio la saga fantasy dei Pirin con la prima edizione del volume “Le Memorie di Helewen”. Il secondo volume della saga, “Hairam Regina”, viene pubblicato nel 2016. É inoltre autore di numerosi articoli, interviste a importanti personalità internazionali e approfondimenti apparsi su riviste e siti web sia svizzeri che italiani. La sua opera tutta, da Favole Ermetiche a L’oro di Polia, per non parlare della saga di Pirin, sta ricevendo grande riscontro sia da parte del pubblico sia della critica, un riscontro a nostro giudizio meritatissimo. Lo intervista per noi Giovanni Carmine Costabile.
Vuoi raccontarci come è nata l’ispirazione per la trilogia, che ricordiamo comprende Le memorie di Helewen, Hairam Regina e Le gesta di Nhalbar, oltre ad alcuni derivati multimediali come il videogame Eselmir e i cinque doni magici?
Sono passati diversi anni, una quindicina almeno. Credo che le prime ispirazioni mi siano venute già sui banchi di scuola, alle medie, e negli anni del liceo iniziavo già a riempire cartelle di schizzi e appunti… penso che l’idea di una “grande saga”, nel senso di un universo corposo che si prestasse a un’espansione narrativa molto ampia e articolata, mi sia venuta dall’amore incondizionato che provai per i film di “Star Wars”. Tuttavia, fu con l’uscita della trilogia cinematografica de “Il Signore degli Anelli” che scoprii l’universo tolkieniano e – sebbene a chiaroscuri – compresi di voler indirizzare la mia saga su quel filone letterario anziché su una space opera. Dicevo “a chiaroscuri” perché sebbene molti elementi tolkieniani mi avessero assolutamente catturato ed entusiasmato, altri aspetti, come penso sia naturale, non li sentivo molto sulle mie corde. Ma al di là di queste “spinte” iniziali derivate in parte dalla cinematografia, devo dire che un’altra mia grande passione già in quegli anni giovanili fosse la storia antica. Avrei tanto voluto emulare (nel mio piccolo, è chiaro) la maestosa eredità dei grandi poemi epici e di altre opere intramontabili prodotte dalle civiltà del passato: opere intrise di una forza magica, che ha sempre esercitato su di me un fascino molto maggiore rispetto alla letteratura contemporanea.
Come già hai avuto modo di sapere questa serie di interviste vuole rintracciare l’eredità di Tolkien negli autori fantasy italiani contemporanei (in lingua italiana, nel tuo caso, essendo svizzero). Perciò ti chiedo direttamente: che ruolo ha avuto Tolkien nella tua scrittura? Come lo hai conosciuto? In che rapporto ti consideri rispetto a colui che da molti è considerato il padre del genere fantasy?
Sicuramente, come in parte già accennato, la principale influenza tolkieniana l’ho ricevuta dalle recenti trasposizioni cinematografiche. Sono quelle ad avermi fatto avvicinare all’opera del Professore, ma sarò sincero: malgrado la grande ammirazione e il trasporto per l’autore, non ho in seguito approfondito la sua opera tanto da potermi definire un esperto. Molti pensano che alcuni elementi della saga “Pirin” si rifacciano a Tolkien, e magari quando me lo fanno notare mi trovo nell’imbarazzante situazione di non sapere di cosa stiano parlando: nella maggior parte dei casi, la verità è che Tolkien ed io abbiamo attinto da simili fonti, ma si tratta di fonti ben più antiche. Ho iniziato già da adolescente a divorare letteratura – spesso di origine precristiana o medievale – che spaziasse dalla mitologia ai testi sacri di varie religioni, passando dal folklore alle fiabe e leggende di diversi popoli. Perciò è facile che qualora compaiano elementi comuni tra le mie opere e quelle di Tolkien, più che una derivazione diretta possa trattarsi di una rielaborazione di archetipi, parole, simboli, dei secoli o dei millenni passati. Inoltre, ed è un elemento che purtroppo è emerso fin troppo poco dagli studi tolkieniani, il Professore condivideva una passione che ha dominato anche la mia ricerca personale: l’Alchimia, intesa come scienza della trasformazione interiore dell’individuo. Personalmente ho ritrovato moltissimi elementi della più pura tradizione alchemica ed ermetica nell’opera di Tolkien. Gli esempi non si contano: potrei citare il gonfalone di Gondor (riproposizione dell’albero alchemico con le sue sette stelle), o le fasi narrative ispirate alle fasi della Grande Opera: discesa nelle miniere di Moria (Nigredo) assedio della città bianca di Minas Tirith (Albedo) e raggiungimento del fuoco del Monte Fato (Rubedo). I vari riferimenti al Fuoco Segreto…
Ciò che ho maggiormente apprezzato di Tolkien, oltre alla cura per la lore, allo stile aulico e la profondità quasi “religiosa” o meglio ancora “esoterica”, sono gli elementi anche esteticamente più riusciti, ovvero ad esempio l’eleganza della civiltà elfica, o di alcuni luoghi emblematici come Minas Tirith (alla cui interessante tipologia costruttiva e ai suoi precedenti ho dedicato, tra l’altro, un articolo intitolato “La città concentrica. Archetipo del cosmo e della fortezza interiore”).
Quel che invece ho apprezzato meno in Tolkien – ma devo dire in particolare nella trasposizione cinematografica – è l’indugio in elementi più grotteschi, come le varie razze di orchi, e il fatto che un mondo potenzialmente così bello si trovi di fatto – all’epoca degli eventi principali – al tramonto e in rovina. Credo che questa sia un’altra grande differenza rispetto alla mia saga “Pirin”, almeno per quanto riguarda le ambientazioni. Gli eventi salienti della trama descritti nel secondo e terzo volume (perché il primo volume costituisce una sorta di retrospettiva, se vogliamo) si svolgono all’epoca del massimo splendore delle civiltà del continente, cioè in un mondo ancora brulicante di vita e iniziativa, monumentale e popoloso, che richiama i fasti degli antichi imperi.
Complimenti per la sezione dedicata alla vita e alle usanze dei Pirin. Sembra quasi di leggere uno dei trattati filosofici utopistici sulla città perfetta che abbondano nella tradizione occidentale, dalla Repubblica di Platone alla Città del sole di Tommaso Campanella, per non parlare ovviamente di Utopia di Tommaso Moro. Scorgo anche un influsso sottile del socialismo ottocentesco, se non sbaglio, nella particolare attenzione all’aspetto del lavoro nel regno dei Pirin. Ma ovviamente un altro modello è senz’altro la Contea di Tolkien. A cosa pensavi in realtà? Ho indovinato qualcosa?
Ti ringrazio. Sì, hai azzeccato buona parte dei principali “influssi”. Aggiungerei anche alcune allusioni a realtà idilliache e utopiche descritte nei racconti orientali e mediorientali, come la celebre Śambhala, i vari miti edenici e sulle età dell’oro di varie civiltà, senza dimenticare un luogo che ha sempre esercitato grande influenza sul mio immaginario: il continente perduto di Atlantide, di cui adorai la descrizione platonica. La Contea tolkieniana può condividere con la mia Lothriel forse l’atmosfera serena e “fuori dal mondo”, ma la prima è molto più rustica e semplice rispetto alla seconda, la quale è invece più monumentale, elegante e sofisticata.
Il primo volume, Le memorie di Helewen, si apre con una scena, l’arrivo della zattera dei genitori di Nhalfordon-Domenir alla dimora di Helewen, dove affidano loro figlio alle cure del tutore, un Pirin, che lo istruirà in merito alla storia (e alle storie) del mondo, della sua stirpe e di sé medesimo, narrazioni che costituiscono il resto del libro, con poche interruzioni. L’impressione che se ne ricava è di un impianto accuratamente studiato per introdurre il lettore gradualmente nel tuo mondo. Hai avuto qualche ispirazione nel disegnare questa struttura espositiva? Un lettore tolkieniano non può che pensare ai Racconti ritrovati…
In realtà credo che in questo senso la maggiore fonte d’ispirazione sia stata la Shahrazād delle “Mille e una notte”. Ma anche il ciclo arturiano, in particolare nei romanzi cortesi di Chrétien de Troyes. Senza dimenticare altri celebri cicli di racconti (qualche traccia appena accennata di Decamerone, tanto per dirne una…). Non tralasciamo la grande influenza dei cosiddetti “testi sacri”. Da quelli indiani fino alla Bibbia, passando dall’epica omerica.
In generale, come giustamente evidenzi, il primo volume vuole introdurre al “mondo narrativo” in modo graduale, evidenziando il background attraverso l’espediente di racconti inanellati ma di epoche diverse. Lo stile narrativo e la psicologia dei personaggi, nel primo volume, sono volutamente vicini all’astratto, al fiabesco, all’archetipico, con personaggi semplici, in grado di rappresentare un determinato valore etico e umano. Con il procedere della narrazione, nel secondo e terzo volume, gli eventi si fanno ravvicinati, proprio come i personaggi, che acquistano via via una psicologia sempre più stratificata, poliedrica, sfuggente, difficile da inquadrare nell’ottica di stereotipi caratteriali. I sentimenti iniziano a scendere dal loro “piedistallo” di archetipi e si fanno squisitamente umani, sofferti, talvolta incomprensibili. Viene progressivamente mostrato il male che si cela nel bene e il bene che si cela nel male, la luce nell’ombra e l’ombra nella luce, un po’ come nel simbolo del Tao.
Come Tolkien, anche tu ti ispiri chiaramente alle tradizioni popolari e folcloriche raccolte nelle fiabe e nei racconti di mezzo mondo. Credi anche tu che, come sintetizza mirabilmente C.S. Lewis, grande amico di Tolkien, “un giorno sarai abbastanza grande da ritornare a leggere le fiabe”? O forse, come dice il comico Alessandro Bergonzoni, “dobbiamo smetterla di raccontare favole ai bambini per addormentarli. Iniziamo a raccontargli favole per svegliarli”?
Assolutamente sì. Sono anzi convinto che non solo i bambini, ma anche la gran parte degli adulti non sospetti minimamente l’immenso patrimonio di saggezza racchiuso da fiabe, favole e racconti considerati “per l’infanzia”. Libri come “La Storia Infinita”, “Il Mago di Oz”, “Pinocchio”, “Il Piccolo Principe”, passando dalle fiabe tradizionali raccolte dai Fratelli Grimm, La Fontaine ecc… sono solo alcuni esempi di opere dal contenuto filosofico altissimo, immenso, molto più di certi libri ritenuti “per adulti” ma che, al contrario, si soffermano talvolta su aspetti della vita molto più superficiali, transitori, futili, o che imbrigliano la saggezza in uno sterile linguaggio razionale, dimenticandosi di parlare realmente al cuore, all’anima.
I più grandi autori di fantasy del Novecento, come Tolkien o Lewis, Ende (il mio preferito) ma mi permetto di annoverare anche qualche autore tra virgolette “minore”. come Gaiman con il suo Stardust, hanno saputo affidare alle loro opere “per ragazzi” uno spessore iniziatico che le avvicina ad alcuni dei più eccelsi componimenti del passato, come ad esempio il misticismo della poesia Sufi, i Veda, ecc…
Una profondità che personalmente non riconosco ad autori odierni di bestseller del fantasy “per adulti”, preoccupati soltanto di avvincere con trame politiche, violenza ed erotismo: ingredienti che li rendono soltanto commercialmente più appetibili ma che, dal mio punto di vista, non li renderanno immortali, perché privi di un vero Messaggio in grado di valicare i tempi e gli spazi.
Un altro grande elemento che ho riscontrato in comune con Tolkien è il ruolo centrale dell’amore, soprattutto coniugale e parentale, e quindi della donna, dei genitori e dei figli. Come in Tolkien, per ogni dio c’è una corrispondente dea, anzi addirittura, nel mondo di Pirin, ogni dio ha un aspetto maschile e un aspetto femminile, il cui nome si ricava aggiungendo ‘ah’ al nome del dio maschile (Aedaran→ Aedaranah), oppure mutando in ‘h’ la ‘r’ finale (Foladar→ Foladah). Come in Beren e Lúthien, spesso per i tuoi personaggi è l’amore per una donna eccezionale a motivare le loro imprese (penso soprattutto a Theoson, l’amante di Uhilyn, ma anche a Osondel, desideroso di prole, alla rivalità tra Filo Carminio e Filo Cobalto per la bella Budalidor, all’amore di Folsarèd per la ninfa-cerva…). Cosa puoi dirci a riguardo?
Hai colto quello che è sicuramente un risvolto fondamentale della mia opera. Con “Pirin” ho cercato di raccontare molte forme dell’amore e di come questo possa abbassare o innalzare l’individuo nel suo percorso di affinazione e maturazione. Anche qui vale quanto detto in precedenza riguardo all’evolversi narrativo della trilogia: nel primo volume troviamo amori molto fiabeschi, incondizionati, univoci, assimilabili a quelli dei grandi drammi shakespeariani, dello stilnovismo o della poesia trobadorica. L’avanzamento della narrazione, il suo passaggio temporale dal “tempo del mito” al “tempo degli uomini”, complica decisamente le cose. “Hairam Regina” è dominato dalle grandi passioni, anche distruttive, un costante rimescolarsi emotivo, mentre “Le Gesta di Nhalbar” (il più mistico dei tre) conduce a nuove e più profonde riflessioni, abbracciando suggestioni iniziatiche che avvicinano i personaggi alla comprensione di più vasti misteri divini, e dunque a forme di amore che travalicano i destini e gli interessi individuali.
Avendo menzionato una chicca linguistica della tua opera, non posso che interrogarti anche sulla creazione dei linguaggi del tuo mondo. Quali sono i tuoi modelli linguistici? Tolkien prese essenzialmente a modello il gallese e il finlandese per le sue lingue elfiche, nel tuo caso sbaglio a dire che si sente anche un influsso mediorientale?
Non sbagli. Gli influssi sono molteplici ma è innegabile l’apporto da matrici linguistiche sanscrite, mesopotamiche, egizie, semitiche, greche, latine. Non mi sono fatto mancare neanche ispirazioni precolombiane e da altri ceppi linguistici più circoscritti, di varie parti del mondo. In qualche caso si trovano anche inversioni, o sottili giochi di parole (Helewen s’ispira alle parole inglesi Hel e Heaven, per alludere al fatto che in ogni uomo convivano inferni e paradisi) o citazioni derivate dalla cultura fantasy e fantascientifica più recente. Il nome del Dio supremo Inkahal, ad esempio, è ispirato all’Incal di Jodorowsky, mentre il nome del regno di Lothriel evoca sicuramente atmosfere più tolkieniane.
Ad ogni modo la formazione della lingua dei Pirin è stata uno degli aspetti più laboriosi, perché volevo che fosse strutturata in modo “credibile”, con un vocabolario e proprie regole grammaticali. Non un linguaggio “di facciata” utile soltanto per comporre qualche breve formula magica come se ne trovano diversi esempi nella letteratura coeva, bensì una lingua “funzionante” a tutti gli effetti. Tra l’altro nella colonna sonora del videogame “Eselmir e i cinque doni magici” si trova una canzone interamente scritta in lingua Pirin (il cui testo e la cui melodia sono tratti direttamente dal primo volume della trilogia di romanzi) che per l’occasione è stata intonata da due promettenti studenti di musica del Liceo Cantonale di Bellinzona. Questo ha rappresentato un’ulteriore sfida verso il realismo di questa lore, perché ha permesso alla lingua Pirin di staccarsi dalle pagine stampate e di raggiungere il banco di prova del livello fonetico. Un passaggio delicato poiché, per essere credibile, una lingua deve anche distinguersi per una particolare tonalità, cadenza, pronuncia, e risultare naturale.
Mi ricollego all’ultima domanda e alla precedente sulle fiabe per chiederti: viene spontaneo un dubbio leggendo la saga dei Pirin. Se, come dicevo prima, è chiaro che, provenga dalle Storie di Erodoto o dalle Mille e una notte, entrambe fonti anche di Tolkien, si respira, più ancora che in Tolkien stavolta, un’aria di folklore orientale di riscontro a tant’altro celtico e nordico, sbaglierei a dire che, lette nel modo più giusto, anche le storie dei Pirin si possono definire Favole Ermetiche, il titolo di un altro tuo libro molto apprezzato?
Decisamente. È una saga dalla fortissima componente ermetica ed esoterica, proprio perché in questo vasto corpus di trame e sotto-trame (quasi duemila pagine soltanto i romanzi, senza contare i derivati multimediali) ho cercato di condensare i frutti del mio percorso interiore. Non si tratta di libri che nascono a scopo di intrattenimento. Il loro intento maggiore è quello di lasciare qualcosa al lettore, che possa accompagnarlo nella vita di tutti giorni, verso la propria realizzazione personale, umana, la riscoperta e la coltivazione di quella “scintilla divina” che lo rende un miracolo unico e irripetibile. Questo non avviene soltanto in modo esplicito attraverso ciò che effettivamente i racconti spiegano: si può dire anzi che la componente narrativa sia la punta dell’iceberg. Si tratta di una saga estremamente simbolica: quasi tutti gli eventi e i personaggi, ma anche i luoghi o gli oggetti, possono essere riconducibili al vissuto interiore di ognuno, e ci sono dunque diversi possibili livelli di lettura.
Da qui l’esortazione dell’oracolo rivolta ai Pirin “Dovrete trovare l’oro per il vostro tempio molto più in profondità”.
Infine chiudiamo con una domanda tecnica. Hai speso chiaramente grande quantità di tempo ed energie per realizzare un mondo dettagliato e coerente, in altre parole hai fatto un gran bel lavoro di worldbuilding. Hai dovuto fare molte ricerche per riuscire in un mondo completo e coerente? Come rapporteresti il tempo, suppongo preliminare, dedicato al puro worldbuilding, rispetto al tempo di scrittura vera e propria dei romanzi? E, per concludere, se dovessimo decidere, in vena di grandi semplificazioni, di definire ogni mondo con un semplice aggettivo, Arda è ‘elfica’, Narnia è ‘allegorica’, il Potter-verse è ‘magico’, Westeros è ‘machiavellico’, il mondo dei Pirin è…?
Se dovessi quantificare in modo molto approssimativo, direi che il worldbuilding abbia rappresentato un buon 70% del lavoro e dunque del tempo. In fondo, una volta definita gran parte della lore, il grosso del lavoro di stesura ovvero della parte spiccatamente narrativa è durato relativamente poco. Basti pensare che tra la pubblicazione del secondo e del terzo volume (il più lungo dei tre) è passato più o meno un anno.
Volendo trovare un aggettivo per il mondo dei Pirin credo si possa proporre il termine “mistico”, nel senso più ampio e intimo di un sentimento del sacro non inquadrabile in un contesto religioso e dogmatico, in una corrente o ideologia.
Di nuovo, a nome mio personale di Giovanni Carmine Costabile, del supervisore delle interviste Gianluca Comastri, del gruppo Tolkien nelle Marche – I Cavalieri del Mark, e di tutta la Società Tolkieniana Italiana, grazie di cuore!
Un sentito ringraziamento anche a voi tutti per l’interesse dimostrato nei confronti del mio lavoro, e a te Giovanni, in particolare, per questa bella intervista da cui traspare tutta l’attenzione e sensibilità del tuo approccio ai libri che affronti, e l’invidiabile cultura che ti permette di cogliere preziose connessioni ipertestuali che ad altri magari sfuggono.
L’intervistatore
Giovanni Carmine Costabile (Dott. Mag., 1987-) Libero ricercatore, scrittore, traduttore, pubblica articoli su Tolkien e la letteratura medievale su riviste prestigiose come Tolkien Studies (2017), Inklings Jahrbuch (2017), Mythlore (2018). Relatore di conferenze in Italia e Inghilterra dal 2016, già membro attivo della Tolkien Society inglese, Società Tolkieniana Italiana, Medieval Academy of America. Nel 2018 conduce ricerche su Tolkien e Gawain presso la Weston Library di Oxford e di seguito pubblica la sua prima monografia, Oltre le Mura del Mondo : Immanenza e Trascendenza nell’opera di JRR Tolkien, con prefazione di padre Guglielmo Spirito, introduzione di Oronzo Cilli e postfazione di padre Alberto Quagliaroli, volume che riscuote il plauso generale della critica in Italia e all’estero.
Siamo lieti di annunciare che prende il via proprio oggi, alla vigilia di Ognissanti (o Samhain) del 2018, una delle cose che reputiamo più belle alle quali ci stiamo dedicando da qualche tempo: Tolkieniani Italiani, uno spazio in più ambienti (web, social network e soprattutto incontri dal vivo) che raccoglierà e presenterà una serie di attività ideate e realizzate da tutti coloro che si riconoscono in un certo modo di vivere e condividere valori e atmosfere della Terra di Mezzo.
Questo spazio naturalmente sarà aperto al confronto e allo scambio anche con chi proviene da “altri mondi”: la prima testimonianza di ciò è esibita proprio con l’esordio, che si concretizza con una prima iniziativa che lasciamo presentare al suo sostenitore e promotore più ispirato: Giuseppe Scattolini, fondatore e presidente dell’associazione Tolkien nelle Marche – I Cavalieri del Mark con cui noi di STI abbiamo raggiunto un’intesa e stretto un’amicizia che speriamo duratura, gratificante e stimolo di crescita per tutti noi – andando ad aggiungersi ai nostri ormai storici compagni di viaggio di Eldalië, Collezionisti Tolkieniani, Tolkieniana.Net e Tolkien Italia.
Auspicando che sarà il primo passo di un lungo cammino fianco a fianco, lasciamo dunque la parola e l’attenzione a Giuseppe Scattolini.
Carissimi amici, Cavalieri del Mark, Tolkieniani Italiani,
quest’oggi sono stato chiamato a presentarvi una nuova iniziativa dei Tolkieniani Italiani, in quanto è nata in una discussione tra amici avvenuta in uno dei canali dei Cavalieri del Mark, di cui sono presidente. Ringrazio quindi anzitutto Greta Bertani, che ha lanciato l’idea di raccogliere “interviste” che porteremo avanti, e poi tutti coloro che hanno pensato a farne un ciclo intero che verrà definendosi in itinere. Ringrazio anche chi rende possibile questo progetto particolare, e chi accoglie questo mio articolo nei propri canali. Grazie sentitamente a tutti.
Per capire le intenzioni che stanno dietro all’iniziativa, dobbiamo capire la volontà profonda di coloro che l’hanno lanciata. Penso che sia palese e noto a tutti quanto la realtà tolkieniana italiana sia stata finora un luogo non esattamente pacifico, né accogliente, soprattutto per i neofiti e per chi tra i propri interessi ha l’esclusivo approfondimento di Tolkien. Penso che saremo tutti d’accordo nel dire che uno dei passaggi chiave de Il Signore degli Anelli sia il ritorno di Gandalf nel capitolo “Il Cavaliere Bianco”. Qui Gandalf, non più “il Grigio” ma “il Bianco”, dice alcune delle parole decisive dell’intero libro: dichiara di essere “Saruman come doveva essere”.
Saruman infatti, nelle intenzioni dei Valar che mandarono gli Istari sulla Terra di Mezzo, doveva essere la guida principale contro Sauron e le forze del male. Avrebbe dovuto in sostanza essere lui ad incontrare Thorin in quell’incontro casuale di Brea, avrebbe dovuto essere lui a chiamare Bilbo per essere il quattordicesimo della compagnia di Scudodiquercia, avrebbe dovuto essere lui a guidare la Compagnia dell’Anello ed a cadere nell’affrontare il Balrog di Morgoth a Moria. Ma Saruman non c’è mai stato in queste circostanze. Ha preferito gli alti torrioni, far godere ai popolani del suo aiuto e della sua conoscenza solo quando costretto, di mala voglia, e senza mai confondersi tra loro, senza mai sporcarsi col fango delle strade.
Tutt’altro, noi sappiamo, ha fatto Gandalf, Grigio come le giornate piovose che ha affrontato pur di raggiungere e guidare i suoi compagni, o come le chiazze di fango scuro rimaste sulle sue vesti. Potremmo anche immaginarci come, cosa che Tolkien non dice e non incoraggia a dire, ma per amor di interpretazione lo diremo noi, in principio anche le vesti di Gandalf fossero bianche, ma col tempo si sono colorate dello stesso colore dei luoghi dove camminava, grigi, bui, tetri, sporchi, mentre Saruman è rimasto, più che il bianco, “il puro”, colui che con gli affari piccoli dei mortali non aveva intenzione, non l’ha mai avuta, nemmeno quando era “buono”, di sporcarcisi.
Purtroppo, il mondo Tolkieniano non è mai stato come dovrebbe essere, ma è sempre stato il Saruman della situazione: attento a non avere a che fare cogli affari dei mortali, e tendente non a guidare ma a comandare, a togliere di mezzo ed eliminare in nome del progresso, a diventare il Multicolore quando avrebbe dovuto essere Bianco. Tendente soprattutto a fare delle promesse che poi non avrebbe mantenuto, e ad ingannare quanti incappavano nelle sue reti.
La nostra volontà profonda, Tolkieniani Italiani, è sostanzialmente questa: dare vita a una realtà tolkieniana nazionale come sarebbe dovuta essere da cinquant’anni a questa parte. Questo significa che mai più nessuno verrà lasciato solo, che tutti avranno il diritto di avere una realtà tolkieniana vicino a casa loro e degli amici con cui parlare di Tolkien. Significa che non è necessario che tutti dobbiamo sempre trovarci in uno stesso posto, che siano rocche medievali, fiere del fumetto e quant’altro: Tolkien deve abitare nei nostri cuori, nelle nostre case e vicino ad esse, negli amici di una vita.
Gli studiosi al fianco degli appassionati, gli appassionati al fianco degli studiosi, approccio totale alle opere di Tolkien, amicizia e fraternità: questi sono i valori da portare avanti. Non le fiere col biglietto d’ingresso a pagamento, dove si parla di fumetti e non di letteratura: Tolkien per essere capito va accostato alla filosofia, alla letteratura, alla teologia, agli ambiti del sapere umano profondo, non alle feste in maschera. Per un motivo molto semplice: le feste in maschera accadono un giorno o due nell’arco di tutto l’anno, Tolkien invece ti accompagna tutti i giorni della vita, in quelli belli e in quelli brutti, ti fa provare gioie profonde e grande nostalgia per un mondo perduto che ti spinge ad essere migliore nella quotidianità.
Tolkien è molto più di un passatempo, è una presenza costante, un appoggio sicuro, una roccia nel mezzo del mare in tempesta. Per questo le realtà tolkieniane non possono essere il mare in tempesta, ma la roccia salda cui appigliarsi. Pacifiche, belle da vivere: un mondo come sarebbe dovuto essere, ad immagine e somiglianza degli altri vari paradisi terrestri di cui Tolkien ci parla, come la Contea della Terza Era, Númenor durante i primi secoli della Seconda, Valinor della Prima e di ogni altra Era della Terra di Mezzo.
L’idea di questo ciclo di interviste nasce da qui, come prima pietra della grande casa che desideriamo costruire così come dovrebbe essere: iniziamo ad incontrare e far incontrare le persone, discutere della passione tolkieniana, ampliare delle realtà finora rimaste chiuse, asserragliate nelle loro fortezze che aprono solo ogni tanto e come se fosse una grazia concessa. Non ci si può vergognare di essere tolkieniani amici, come se si fosse appassionati uno scrittore di bassa categoria o si leggessero dei testi di scarso valore. È ora di mostrare al mondo, anche al mondo accademico, quanto è grande questo autore.
Immagine di proprietà di Oronzo Cilli e qui riprodotta per gentile concessione: tutti i diritti riservati
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Annuncio strepitoso di Oronzo Cilli: la prossima primavera avremo in Italia nientemeno che Catherine McIlwaine, ‘Tolkien Archivist’ delle Bodleian Libraries dell’Università di Oxford!
Come dice lo stesso Oronzo, curatore del blog Tolkieniano Collection e autore di apprezzati saggi bio-bibliografici sul Professore, McIlwaine “è il punto di riferimento degli studiosi tolkieniani che intendono compiere ricerche e studi sul grande patrimonio di manoscritti, e non solo, di J.R.R. Tolkien custoditi nella Weston Library di Oxford. Dal 2003, infatti, riveste il ruolo di ‘Tolkien Archivist’ e il suo lavoro è quello di preservare i documenti di Tolkien e, tra le altre cose, aiutare gli studiosi nelle loro ricerche”.
Si tratta inoltre della persona che ha curato la più importante e prestigiosa esposizione dedicata a Tolkien che ha luogo da giugno e si concluderà a breve negli spazi della Weston Library dell’Università di Oxford, Tolkien: Maker of Middle-earth, oltre ai due meravigliosi cataloghi.
Questo invito getta dunque un ponte ideale tra la mostra e l’altro grande evento di agosto, il Tolkien 2019. Che un simile evento si svolga in Italia è occasione da non perdere, ghiotta per vari motivi: conoscere una persona con un ruolo prestigiosissimo, condividere con lei e con altri studiosi giornate di studio, conoscere da vicino la comunità di appassionati che da tanto tempo ormai si dedica a offrire spunti sempre nuovi per cogliere ogni singola stilla della meravigliosa Terra di Mezzo di John Ronald Reuel Tolkien, trasmessaci dal figlio Christopher.
Siamo ansiosi di ricevere nuovi aggiornamenti in merito (oltre che di proporre i nostri contributi allo svolgimento delle giornate), di cui vi daremo tempestivamente ragguaglio!
https://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2018/10/Barletta2019Bozza-1.jpg533960Gianluca Comastrihttps://www.tolkien.it/wp-content/uploads/2016/06/logo_sti2.pngGianluca Comastri2018-10-25 19:09:392018-11-01 10:39:28"Tolkien Archivist" in Italia, a Barletta, nel 2019!
Con il permesso dell’autore, vi proponiamo una succosa nota di Giovanni Carmine Costabile (già apparsa nel gruppo Facebook pubblico dei Cavalieri del Mark) in merito alle fonti letterarie sulla figura del drago relativamente alla loro attinenza con le opere di Tolkien. Buona lettura!
Ogni anno c’è qualcuno che scrive un nuovo saggio sui draghi in Tolkien, e ogni anno rileggiamo sempre la stessa roba che si poteva già trovare in Jonathan Evans nel 2000 (diciotto anni fa!). Questo significa che l’argomento draghi è esaurito? Assolutamente no. Significa solo che siamo pigri e ci fermiamo alla ricerchina da liceo. Però, appena uno allarghi un pò il campo, ci sono molte cose interessanti ancora non dette. Ecco un esempio.
Avete presente come si presenta Smaug?
“Le scaglie della mia corazza sono come scudi dieci volte più possenti, i miei denti sono spade, i miei artigli lance, lo sferzare della mia coda una saetta, le mie ali un uragano e il mio alito morte!”
—Smaug, J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, cap. XII, “Notizie dall’interno”.
In inglese:
“My armor is like tenfold shields, my teeth are swords, my claws spears, the shock of my tail a thunderbolt, my wings a hurricane, and my breath death!”
–Smaug, J.R.R. Tolkien, The Hobbit, ch. 12, “Inside Information”.
Ebbene, una presentazione del genere sembra proprio naturale per un drago, al punto che non ci chiediamo neanche quale possa essere la fonte di Tolkien. Eppure di fonti a riguardo c’è una grande abbondanza nella letteratura inglese, tutte raccolte da E.K. Chambers in questo passaggio del suo libro sulle rappresentazioni teatrali popolari inglesi:
“Perhaps the Dragon proved difficult to represent under village conditions. But I believe that he does figure, rather cryptically, more often than is at first sight obvious. A favourite combatant is Slasher, to the many variants of whose name Johnson’s story affords no clue. And to Slasher, more than to any other, belongs the vaunt:
My head is made of iron,
My body is made of steel,
My arms and legs of beaten brass;
No man can make me feel.
I formerly rejected a theory which made Slasher the representative of the hardness of the frost-bound earth in winter, and thought that the lines might merely refer to the armour of a champion. But I am now sure that I was wrong. They are the description of a dragon. The following catena will, I think, place this beyond doubt.
His sides wer hard ase eni bras,
His brest was hard ase eni ston.
[Sir Beues of Hamtoun, Auchmleck MS. (1330-40), 2676]
His skales bryghter were than glasse,
And moche harder than any brasse.
[Ibid , ed Pynson (c 1503), 2427]
And ouer, all with brasen scales was armd,
Like plated coate of steele, so couched neare,
That nought mote perce, ne might his corse be harmd
With dint of sword, nor push of pointed spere.
[Faerie Queene (1590), x. xi 9]
His scales glistering as silver, but far more hard than
brass.
[Johnson, ch in]
His skin more hard than brass was found,
That sword or spear can pierce or wound.
[Seventeenth-century Ballad]
They are all dragons.”
(E.K. Chambers, The English Folk-Play, pp. 177-78)
Potremmo credere che sia finita qui. Tolkien indubbiamente conosceva E.K. Chambers, visto che recensì una sua opera negli anni 50. Inoltre, conosceva The Faerie Queene di Spenser, che cita in Sulle fiabe (e come potrebbe un professore di letteratura inglese non conoscerlo?) e Bevis of Hampton è un romance medievale, di quelli che studiava insieme al Sir Orfeo e al Sir Gawain and the Green Knight.
Eppure c’è dell’altro. Qualcuno forse ha già indovinato di cosa parlo. Se apriamo la Bibbia sul libro di Giobbe, il capitolo 41 è interamente dedicato a un particolare tipo di drago, il drago marino, o Leviatano:
1 Ecco, è vana la speranza di chi lo assale;
basta scorgerlo e uno soccombe.
2 Nessuno è tanto ardito da provocarlo.
E chi dunque oserà starmi di fronte?
3 Chi mi ha anticipato qualcosa perché io glielo debba rendere?
Sotto tutti i cieli, ogni cosa è mia.
4 E non voglio tacere delle sue membra,
della sua gran forza e della bellezza della sua armatura.
5 Chi l’ha mai spogliato della sua corazza?
Chi è penetrato fra la doppia fila dei suoi denti?
6 Chi gli ha aperti i due battenti della gola?
Intorno alla chiusura dei suoi denti sta il terrore.
7 Superbe sono le file dei suoi scudi,
strettamente uniti come da un sigillo.
8 Uno tocca l’altro,
tra loro non passa l’aria.
9 Sono saldati assieme,
si tengono stretti, sono inseparabili.
10 I suoi starnuti danno sprazzi di luce;
i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora.
11 Dalla sua bocca partono vampate,
ne sprizzano fuori scintille di fuoco.
12 Dalle sue narici esce un fumo,
come da una pentola che bolle o da una caldaia.
13 L’alito suo accende i carboni,
una fiamma gli esce dalla gola.
14 Nel suo collo risiede la forza,
davanti a lui si fugge terrorizzati.
15 Compatte sono in lui le parti flosce della sua carne,
gli stanno salde addosso, non si muovono.
16 Il suo cuore è duro come il sasso,
duro come la macina di sotto.
17 Quando si rizza, tremano i più forti,
e dalla paura sono fuori di sé.
18 Invano lo si attacca con la spada;
a nulla valgono lancia, giavellotto,
corazza.
19 Il ferro è per lui come paglia;
il bronzo, come legno tarlato.
20 La figlia dell’arco non lo mette in fuga;
le pietre della fionda si mutano per lui in stoppia.
21 Stoppia gli pare la mazza
e ride del fremere della lancia.
22 Il suo ventre è armato di punte acute,
lascia come tracce d’erpice sul fango.
23 Fa bollire l’abisso come una caldaia,
del mare fa come un gran vaso da profumi.
24 Si lascia dietro una scia di luce;
l’abisso pare coperto di bianca chioma.
25 Non c’è sulla terra chi lo domi;
è stato fatto per non aver paura.
26 Guarda in faccia tutto ciò che è eccelso,
è re su tutte le belve più superbe».
[Giobbe 41, 1-26]
Tolkien, per chi non lo sapesse, contribuì alla traduzione della Bibbia di Gerusalemme, quindi conosceva anche questo. Qual è la vera fonte allora? La Bibbia o la Regina delle Fate? La Palestina o la Germania? Cristiano o pagano?
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Invito alla lettura delle traduzioni di Tolkien
Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Perla e Sir Orfeo: si tratta di tre titoli che probabilmente a qualcuno sfuggono, ma a chi si interessa a J.R.R. Tolkien e alla sua produzione letteraria li troverà famigliari. Queste tre opere fanno parte di una collezione di traduzioni dal Medio Inglese, che si contraddistinguono per la ricercatezza del tema e per la qualità filologica del lavoro compiuto. Se ne registra un’edizione curata da Christopher Tolkien uscita nel 1975, seguita da varie altre tra cui una recente con illustrazione di copertina di John Howe. Di seguito, Giovanni Carmine Costabile (con immagine tratta dall’archivio di Oronzo Cilli) ce ne offre una presentazione, che funge in modo egregio come invito alla lettura di quest’altro notevole filone giunto a noi dall’ingegno del Professore.
Sir Gawain e il Cavaliere Verde
E’ Capodanno in quel di Camelot. A corte è uno sfarzo: banchetti luculliani su tavolate da decine e decine di posti, danze al suono di menestrelli e strimpellatori nelle sale illuminate a giorno, giostre tra cavalieri dove questi si disarcionano uno dopo l’altro a suon di lancia fino all’emergere dei campioni, e declamazioni poetiche, corteggiamenti in francese, accettati e respinti, mentre le sfere dei giocolieri sembrano galleggiare in aria e il tempo quasi si ferma tra la danza delle spade, il duello degli amanti e la sfida, al verso, all’arena, al gioco, alla pista, al bacio, al boccale, proclamata da molte coppie di occhi verso molti altri due occhi.
E’ un attimo, e cala il silenzio. Un’apparizione si è manifestata con tutto il clamore della sua straordinarietà. Un uomo verde, dalla pelle verde, i capelli e la barba verdi, l’armatura verde, l’enorme ascia verde, e persino il cavallo verde, ha fatto il suo ingresso a corte come una sfida: egli non teme nemmeno di offendere il re. Quando Artù, stizzito, gli domanda cosa voglia, se cerchi forse un duello, il soprannaturale individuo ride, per poi rispondere: “No, non cerco un duello, ma un gioco. Chi vorrà potrà tagliarmi la testa, ma poi dovrà permettermi di tagliare tra un anno la sua”.
Un incipit di grande efficacia, che continua a lasciare a bocca aperta i lettori anche oggi, a più di seicento anni dalla stesura dell’opera, che in realtà deriva da altre versioni più antiche. Il prosieguo non è da meno, provare per credere. In Inghilterra e negli Stati Uniti, questo poema non è solo oggetto per specialisti, ma viene proposto anche nelle scuole in quanto classico della letteratura medievale. Difficile che una persona di media cultura nel mondo anglosassone non conosca Sir Gawain e il Cavaliere Verde, anche solo per sentito dire.
Infatti, tra Natale del 1967 e la prima metà del 1968, si fecero i preparativi per la scrittura di un film ispirato a tale vicenda, che avrebbe avuto Mick Jagger nel ruolo del Cavaliere Verde, ma il progetto non vide mai la luce. Esiste un lungometraggio di Stephen Weeks del 1984, riedizione di un precedente del 1973, con Sean Connery nel ruolo del Cavaliere Verde, ma la qualità della realizzazione è piuttosto scarsa e la trama un libero stravolgimento dell’originale con cui mantiene ben pochi legami. Per la televisione vi fu il lungometraggio del 1991 diretto da David Rudkin, di qualità discretamente accettabile. Invece risale proprio a qualche settimana fa, finalmente, l’annuncio di un nuovo film ispirato al poema, che sarà diretto da David Lowery ed è previsto per il 2019.
Tolkien studiò e insegnò quest’opera per tutta la vita, dalla prima scoperta all’inizio degli anni ’10 del Novecento fino alla morte, quando lasciò inedita la traduzione che fu pubblicata subito dopo dal figlio Christopher. Oltre ad essa, aveva anche redatto col collega Gordon un’edizione critica che includeva il glossario di tutti i termini nel difficile dialetto medio inglese del poema, oltre a commentare l’opera come una fiaba nella conferenza Sulle fiabedel 1939. Presentò nel 1953 un’ulteriore conferenza di grande importanza per l’interpretazione dell’opera, nonché poco tempo dopo a introdurre gli ascoltatori della radio BBC alla conoscenza della stessa.
Gli amanti di Tolkien che consultino la sua traduzione, o la versione italiana della stessa, edita da Mediterranee, noteranno che vi si parla di Terra di Mezzo, che vi sono menzioni di Orchi, Troll, Mannari, Uomini Selvatici, che anche qui si assiste a una tentazione legata a un anello d’oro, e forse, come hanno fatto alcuni studiosi, potrebbe venir loro in mente di paragonare Gawain a Frodo.
Ma soprattutto si troveranno cavalleria, magia, coraggio, amore, fedeltà, tradimento, pentimento: l’intera gamma delle situazioni esteriori e interiori che associamo al mondo di re Artù, e forse anche diverse cose che invece non ci aspettiamo affatto. Un mix che di per sé è quanto di più vicino si possa trovare agli ideali del tolkienista in questi giorni.
Allora cosa aspettiamo? Montiamo, presto, su Gringolet, il prodigioso destriero di Gawain la cui criniera riflette i raggi del sole, e partiamo lesti al galoppo, diretti verso nuove avventure!
Perla
Un uomo affranto vaga per un paesaggio desolato senza una meta, proprio come uno di quegli erranti che pongono il dubbio d’esser perduti nella poesia che profetizza il Ritorno del Re di Gondor neIl Signore degli Anelli. Ma qui l’ombra non sprigiona scintille, né si trova fuoco che rinasca dalle ceneri: l’uomo sembra veramente perduto senza alcuno scampo, né se ne conosce il perché. In realtà, il paesaggio sterile e brullo, il senso di oppressione che evoca, l’erranza ben poco cavalleresca di questo signore: niente di tutto ciò è vero, ma si tratta di un sogno.
Lo capiamo perché l’autore dell’opera ce lo dice espressamente, ma l’avremmo capito anche da soli una volta che si scopre che l’uomo ha ormai perso ogni gioia e senso di vivere da quando “ha lasciato cadere la sua perla nel prato”, un modo molto poetico di dire che non ha potuto fare niente per evitare che sua figlia morisse in tenerissima età, due anni probabilmente, per un male imprecisato. Lo capiremmo da soli, già, perché ora quella stessa figlia ormai defunta gli è di fronte, dall’altra parte di un fiume impetuoso, e gli rivolge la parola, si, ma freddamente. Nessun “papà” affettuoso sulle sue labbra nuovamente rosee, nessun “caro babbo”, o simile formula, ma un neutro “voi” che sembra freddo come un maleficio.
Eppure, apriti cielo, il padre è felice come un bambino! La sua adorata figlioletta ancora viva! Già, perché lui, che si tratta di un sogno, lo ha scoperto solo più tardi, dopo che si è svegliato, e a quel punto il sogno era diventato così reale che il fatto stesso di essere un sogno, pur sapendolo, è passato in secondo piano. Ora quel sogno è più vero della realtà, e non perché la realtà non sia vera, ma perché il sogno non è solo sogno.
Come lo sappiamo? A meno di avere anche noi un sogno del genere, cosa poco raccomandabile, visto che comporta l’aver perso una persona cara in precedenza, si può leggere il poema Perla, di un anonimo poeta inglese di fine Trecento, non di troppo tempo posteriore a Dante e non troppo lontano dalla grandezza di questi, a dispetto del paradosso del destino che non ci ha voluto consegnare il suo nome.
Tolkien amò appassionatamente questo poema sin dalla prima lettura, e si dedicò ad esso per tutta la vita, tenendo lezioni su di esso, traducendolo in inglese moderno, dal momento che comprensibilmente è scritto in inglese medievale, e per di più in un dialetto molto difficile, ma non solo: Tolkien ne ha anche parlato per radio sulla BBC inglese e ha anche aiutato nella stesura di una edizione critica Eric Valentine Gordon, un suo collega universitario tanto dedito al lavoro da essere scherzosamente soprannominato da Tolkien “il diavolo industrioso”.
L’opera è pubblicata nella versione italiana della traduzione di Tolkien nel libro Sir Gawain e il Cavaliere Verde, con Perla e Sir Orfeo, editore Mediterranee. Si tratta di una versione in italiano molto gradevole e accessibile di una traduzione in inglese moderno, quella di Tolkien, che è un vero e proprio gioiello, anch’essa ordinabile da HarperCollins per chi conosca l’inglese. Invece, essendo un’opera così ostica nella versione originale in inglese medievale, è difficile che qualcuno ne voglia consultare l’edizione critica di Gordon, a parte gli studiosi. Ne esistono tuttavia anche altre traduzioni italiane, tradotte direttamente dall’inglese medievale senza passare per la versione di Tolkien, che sono anch’esse interessanti, per chi volesse approfondire un poco il poema e il suo straordinario autore.
Questo modernissimo poeta medievale rimasto ingiustamente sconosciuto, infatti, scrisse anche il poema cavalleresco Sir Gawain e il Cavaliere Verde, un’avventura mozzafiato di un cavaliere della Tavola Rotonda che si mette sulle tracce di un misterioso cavaliere senza testa dalla pelle verde, oltre a due poemi di argomento biblico intitolati Pazienzae Purezza, rispettivamente ispirati al libro di Giona, il profeta divorato dalla balena che ispirò anche il famoso episodio di Pinocchio, e al libro di Giuditta, la storia della donna che salvò il suo popolo dall’invasione assira seducendo il comandante assiro per poi ucciderlo.
Questo poeta trae sempre una morale dalle storie che racconta. Per la storia del Cavaliere Verde, il messaggio è di tener fede alla parola data, altrimenti come Gawain potrebbe toccarvi di perdere tutta la reputazione conquistata in una vita. Per Pazienza, la morale è quella espressa nel titolo: se pensate di avere motivo di perdere la pazienza, cosa avrebbe dovuto fare Giona inghiottito da una balena? Per Purezza, un messaggio che oggi diremmo salutista: abbiate sane abitudini, non esagerate nel mangiare o nel bere, o magari vi capiterà come a Oloferne, comandante di Nabuccodonosor, sedotto e convinto a ubriacarsi da una donna straniera che poi lo decapita. Infine, abbiamo Perla, portatore di un grande messaggio di speranza: qualsiasi cosa brutta vi possa capitare, anche la peggiore, come perdere una figlia di due anni, c’ sempre motivo di continuare a vivere, perché la vita può riservare tante sorprese.
E questo, oltre ad essere apprezzato molto da Tolkien, una persona che di lutti ne aveva avuti tanti, nel mare di disperazione e di disfattismo in cui certuni vorrebbero ci si abbandonasse oggi, è un messaggio estremamente attuale.
Sir Orfeo
Tutti bene o male conoscono il mito greco di Orfeo ed Euridice: il leggendario musico la cui moglie gli fu strappata anzitempo, che scese fin nelle viscere dell’Ade, armato solo della sua cetra, e strappò la bella Euridice alle mani del dio dei morti con la bellezza della sua musica solo per perderla quando, voltatosi indietro sulla via del ritorno per sincerarsi la compagna lo seguisse, con ciò violò l’unica condizione imposta dal dio per un felice esito della storia e dunque si condannò al fallimento.
O almeno questo è quanto si tramanda da parte di alcuni autori greci e latini: il mito, come spesso accade, conosceva diverse varianti e diversi finali. Una di queste è conservata in redazione medievale proprio con il titolo di Sir Orfeo, e i più attenti noteranno fin da subito che c’è qualcosa di strano, non appena verso l’inizio viene detto che Sir Orfeo è re di una città inglese.
Ohibò, e chi lo sapeva? Si chiederà qualcuno, da sempre convinto che il famoso musico fosse semmai originario della Tracia. Ma non è con questo spirito che bisogna avvicinare un simile capolavoro. Le storie si tramandano e mutano nel diffondersi, un pò come nel gioco che facevamo da bambini in cui ci mettevamo in cerchio, il primo sussurrava una parola all’orecchio di chi gli stava a fianco, che a sua volta ripeteva la stessa parola a chi era più in là, fino a tornare dopo tutto il giro al primo… con la parola che era completamente cambiata!
Con le storie, le leggende, i miti, e le fiabe succede sempre così. Quasi tutti gli Ulisse che arrivino in Inghilterra sono inglesi, così come gran parte degli Artù che pervengano in Grecia parlano greco. Ma questa è una ricchezza, piuttosto che un difetto, e non fa che provare l’inesauribile fascino e complessità delle tradizioni europee e di tutto il mondo.
Con questo spirito, possiamo allora affacciarci a un canto (lai) di origine bretone, vale a dire della regione del nord della Francia chiamata Bretagna, da non confondere con la Gran Bretagna. Tale canto fu composto da un menestrello sulla base di racconti giunti da sud che riguardavano un musico dal talento straordinario che aveva sottratto sua moglie alle grinfie della morte con la sua cetra.
E ora cosa succede? La storia si mescola alle tradizioni bretoni, impregnate di re Artù, Merlino, Morgana, elfi, fate, folletti, e chi più ne ha più ne metta, e così Dama Heurodis, come diventa Euridice in questa storia, stranamente non viene rapita dai morti, ma dagli elfi, e condotta nel loro reame sotterraneo. Che gli elfi vivano sottoterra forse non sorprenderà chi conosce un pò le leggende irlandesi, dove spesso è sottoterra, o sotto una pietra, che si incontrano i folletti, piuttosto che nelle foreste del fantasy.
E così Sir Orfeo parte alla sua ricerca e, quando scopre l’accesso al mondo sotterraneo, nella sua descrizione si fondono: 1) la descrizione dell’Ade dell’originale greco; 2) le descrizioni dei palazzi elfici che dovevano abbondare nelle storie che questi menestrelli udivano, ma a noi non sono giunte quasi per niente; 3) tradizioni che volevano gli elfi come guardiani dell’oltretomba, se non proprio spiriti dei morti.
Inutile dire che il mix, molto peculiare, non poteva che colpire l’attenzione di un amante degli Elfi come Tolkien, che immediatamente decise che avrebbe tradotto la versione medioinglese del canto bretone in inglese moderno. Di questa traduzione si può leggere l’ulteriore traduzione italiana nel volume di Mediterranee. Bell’intreccio, eh? D’altronde, il canto bretone è andato perduto, e la versione medioinglese è l’unica che ci resta per tuffarci sottoterra come topi di Hamelin dietro al suono di quella che è ormai divenuta l’arpa di Orfeo… e chissà, che stavolta la storia non abbia un finale diverso?
Tolkieniani Italiani – intervista a Giuseppe Festa
Chiunque si sia avvicinato al mondo degli appassionati tolkieniani negli ultimi vent’anni non può aver ignorato il notevole contributo in fatto di arte, sensazioni ed emozioni che Giuseppe Festa ha donato a tutti coloro con cui è stato in contatto. Ormai le manifestazioni e gli eventi che ha impreziosito con le sue note e le sue parole, comprese diverse edizioni di Hobbiton, non si contano più. E anche se ormai la sua strada ha preso un’altra direzione, leggerete dalle sue stesse risposte che ad ogni modo tra i Tolkieniani Italiani lui c’è sempre stato e sempre ci starà: il suo percorso e quello del Professore hanno davvero tanto in comune. Scopritelo dalle sue risposte alle domande sapienti di Giuseppe Scattolini.
Giuseppe Festa è un nome molto noto tra i tolkieniani, soprattutto per le musiche dei Lingalad in “Voci dalla Terra di Mezzo”. Io le adoro per vari motivi: i testi sono quelli di Tolkien, le melodie sono molto belle, l’ambientazione naturale e paesaggistica di molte di esse le rende uniche, e il Professore le avrebbe certamente apprezzate (la figlia Priscilla lo ha fatto). Quando nasce il progetto per la registrazione del cd “Voci dalla Terra di Mezzo”, e quali sono la storia passata, il presente e gli obiettivi futuri dei Lingalad?
Ho scritto i primi brani nel 1998, semplicemente per cantarli davanti al fuoco con gli amici, o durante qualche passeggiata nei boschi. Erano Beren e Tinuviel, La via prosegue senza fine e Montagne di luna inondate. Fu un amico a convincermi a farne un cd. Era un periodo di particolare ispirazione e ricordo che in una sola settimana composi tutte le altre tracce dell’album. Una volta pubblicate, cominciarono a girare online (eravamo agli albori di internet) e subito arrivarono delle richieste per suonarle dal vivo. Così chiesi al mio amico Fabio Ardizzone di formare un duo e provare a costruire un concerto acustico a lume di candela, proprio come degli Hobbit in una locanda della Contea. Quando le date cominciarono ad aumentare, richiamammo il batterista che suonava con noi ai tempi del liceo e con cui eravamo sempre rimasti in contatto, Giorgio Parato. Fu così che nacquero ufficialmente i Lingalad. La svolta del nostro percorso artistico avvenne nel 2003, quando ricevemmo un invito a suonare in America alla prima del film Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re. Quell’evento attirò l’attenzione dei media italiani e ci permise di farci conoscere di più.
Negli anni abbiamo aumentato l’organico del gruppo e abbiamo percorso sentieri anche lontani da Tolkien, ma sempre nutrendoci del forte potere evocativo della natura che troviamo nelle sue pagine. Il futuro è fatto del video di un concerto che pubblicheremo a breve e di un cd celebrativo dei nostri 20 anni di musica. Poi, chi lo sa? La via prosegue senza fine…
Oltre che cantante, Giuseppe, sei anche uno scrittore. Io in particolare ho letto “La luna è dei lupi”, che ho apprezzato tantissimo e per i tanti suoi aspetti. Parlaci un po’ dei tuoi romanzi, del loro significato, dello stile in cui li scrivi, e soprattutto del perché li scrivi: che cos’è che ti fa amare tanto la natura, e cosa ha da dire essa al cuore dell’uomo secondo te?
Ho sempre raccontato storie attraverso le mie canzoni, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di più spazio per descrivere personaggi, trame e sotto trame. Così è nato Il passaggio dell’orso (Salani), il libro che ha segnato il mio esordio. Non pensavo che la scrittura sarebbe diventata il mio lavoro, ma alla fine è andata proprio così. Anche nei miei libri, come nella musica, i protagonisti assoluti sono il rapporto uomo-natura, gli animali, le foreste secolari. Sono convinto di amare così tanto la natura perché sono nato e cresciuto a Milano. Mi è mancata davvero tanto, soprattutto quando tornavo in città dopo i week end trascorsi dai miei nonni, che abitavano in un piccolo paradiso nei boschi, sul Lago d’Iseo.
A vent’anni feci un’esperienza di volontariato al Parco Nazionale d’Abruzzo e quei giorni ribaltarono la mia vita. Tornai e cambiai città, università e lavoro. Lasciai la facoltà di Ingegneria (con “grandissima gioia” di mio papà ingegnere) e virai su Scienze Naturali, dandomi all’educazione ambientale nelle scuole. Quell’esperienza al Parco ispirò anche Il passaggio dell’orso, che racconta la storia di un ragazzo di città alle prese per la prima volta con le foreste abruzzesi e i suoi orsi.
Negli ultimi anni ho scritto diversi romanzi, mentre l’ultimo nato, I figli del bosco (Garzanti), appartiene al genere non-fiction e racconta la storia vera di due lupi, che ho avuto la fortuna di vivere personalmente.
Dando uno sguardo sul tuo sito personale, http://www.giuseppefesta.com/, leggo che sei anche un educatore ambientale. Parlaci un po’ di questa tua professione: che cosa significa essere degli educatori ambientali oggi? E soprattutto: a parer tuo c’è una sorta di educazione ambientale ed all’amore per la natura in Tolkien?
Tolkien è stato un educatore ambientale ante litteram, e lo considero un mio maestro. Nelle mie attività con i bambini cerco di riempire di contenuti “magici” gli elementi naturali. Fin quando considereremo un albero solo un insieme di vasi del legno, linfa e cellulosa, faticheremo a creare con lui un legame emotivo. Bisogna coltivare i sentimenti per la terra prima di seminare i concetti ecologici. I bambini di oggi sono molto lontani dalla natura, spesso possono vederla solo attraverso lo schermo dei loro device tecnologici. Eppure in loro c’è una carica selvaggia incredibile e basta poco per abbattere quelle barriere attitudinali che li dividono dalla natura.
Purtroppo, se superano una certa età senza aver avuto esperienze significative e positive con la terra, allora il legame si spezza definitivamente. Dobbiamo agire prima, fargli vivere il bosco e gli animali come un’esperienza emotiva piacevole, divertente, sorprendente e appagante. Solo così avremo degli adulti con la voglia di adottare comportamenti sostenibili nei confronti del Pianeta. Conosciamo ciò che studiamo, ma proteggiamo solo ciò che amiamo.
Che bello se ognuno di noi potesse avere anche soltanto una briciola del rispetto e l’amore che gli Elfi nutrono per i loro boschi.
Venendo invece alla tua sensibilità, qual è il tuo modo di approcciarti ai testi Tolkieniani? Ad esempio, c’è un passo del Signore degli Anelli in cui Tolkien fa la stessa cosa che fai tu nei tuoi romanzi. Nel capitolo “In tre si è in compagnia”, cito: “Qualche piccolo essere incuriosito si avvicinò ad osservarli quando si fu spento il fuoco. Una volpe, che attraversava il bosco per affari suoi personali, si arrestò qualche minuto ad annusare. «Hobbit!», pensò. «Incredibile! Avevo sentito dire che avvenivano strane cose in questo paese, ma trovare addirittura degli Hobbit che dormono all’aria aperta sotto un albero! E sono in tre! C’è sotto qualcosa di molto strano». Aveva perfettamente ragione, ma non riuscì mai a scoprire che cosa.” (traduzione Bompiani 2002) Quando leggi queste righe, quali sono le sensazioni che ti danno? Come stimolano la tua immaginazione?
Nei miei romanzi (e anche nelle canzoni) ho sempre cercato un ribaltamento di prospettiva, provando a immaginarmi i pensieri degli animali, il loro giudizio su di noi e sul nostro mondo. Ho anche provato a immaginarmi i pensieri di elementi naturali come un albero, un fiume o una montagna (come nel cd Lo spirito delle foglie). Ovviamente ognuno di questi elementi naturali può essere visto come una tipologia umana in cui riconoscersi: il vecchio lupo alla ricerca di un branco, la giovane aquila pronta a spiccare il volo, la foglia che riflette sul passare delle stagioni e sul suo destino che la porterà ad essere parte del tutto e a rinascere sotto forme diverse.
Metterci nei panni degli altri ci aiuta a comprendere meglio la realtà che ci circonda. La stessa cosa, esasperandola al massimo, l’ho fatta nel libro che hai citato prima, La luna è dei lupi, dove gli animali parlano e riflettono sul mondo degli umani. Il libro diventa così uno specchio di noi stessi. E il lupo è, a mio parere, il miglior animale in cui specchiarci, visto che nei suoi occhi, ne sono certo, possiamo vedere una parte di noi che abbiamo perso. Scorgiamo un’empatia col mondo naturale, uno spirito di libertà che un tempo era nostro ma che ora abbiamo smarrito. Non dovremmo temere il lupo, ma l’esserci allontanati dal nostro essere lupi.
Per chiudere vorrei chiederti questo: quando Barbalbero dice di non stare dalla parte di nessuno, perché nessuno è dalla sua parte, a te cosa fa venire in mente?
Penso a un essere straordinario, uno dei più riusciti di Tolkien, che in questo caso non dice del tutto la verità: Barbalbero sa benissimo da che parte stare, e quando viene il momento di passare all’azione, lo fa con la massima forza e determinazione. Dovremmo prendere esempio da lui. Noi umani stiamo attraversando un momento storico che assomiglia molto a una lunghissima Entaconsulta. Si discute da anni su cosa fare per affrontare gli sconvolgimenti climatici che stiamo provocando noi stessi. Speriamo che alla fine delle discussioni si possa partire in una direzione precisa e marciare verso Isengard. Prima che sia troppo tardi.
Tolkien nell’archivio della Pléiade
Stando a una recentissima segnalazione, le opere di J.R.R. Tolkien verranno inserite in una delle più importanti risorse bibliografiche francesi: la notizia, comparsa sia sulla stampa che in Rete e sui social network, ci dice che le pagine più belle del nostro amato Professore finiranno a far compagnia ai volumi riportati qui sopra (immagine di LPLT diffusa via Wikimedia Commons):
Tutto è partito da un trafiletto sul quotidiano transalpino Le Figaro, condiviso venerdì 23 novembre da Tolkiendil sulla pagina Facebook dell’omonima associazione che, come noi e i nostri “partner strategici”, si occupa di promuovere l’opera di J.R.R. Tolkien sul suo territorio.
Per tutti i particolari su questo pregevole annuncio rimandiamo alla lettura dell’articolo completo su Tolkien Italia:
Tolkieniani Italiani – Intervista a Paolo Pugni
Il nostro ciclo di interviste aggiunge un tassello pregiato: Greta Bertani ha avvicinato un altro pioniere della diffusione delle opere del Professore in Italia, nonché amico di vecchia data, portando tra le pagine dei Tolkieniani Italiani il contributo offerto dalla perizia di Paolo Pugni. Se il nome non vi dice nulla non preoccupatevi e leggete tutto quel che segue, abbiamo fatto in modo che raccontasse a dovere di sé.
Buongiorno Paolo, forse non tutti conoscono la tua passione per Tolkien, che è nata molti anni fa. Tu hai tradotto, assieme a Franca Malagò, l’edizione italiana della Biografia di Tolkien scritta da Humphery Carpenter ed edita da Ares già nel 1991. Ci puoi raccontare com’è stata questa esperienza e cosa ti ha lasciato? Tu nella vita sei consulente aziendale, aiuti le aziende nelle strategie di marketing. Cosa ti sei portato nella vita di ogni giorno anche quando ti dedicavi ad altro?
Avevo avuto la fortuna di leggere la biografia di Carpenter in inglese e me ne ero innamorato: quando un libro ti appassiona al punto da tormentarti, allora l’autore diventa un grande amico. Vorresti averlo accanto a te per fargli mille domande e proseguire nel racconto. La biografia di Carpenter fu la risposta a queste mie aspettative. Logico che proposi subito di tradurla per renderla disponibile agli appassionati italiani. Era giù uscito l’altro delizioso lavoro del medesimo autore sugli Inklings con Jaca Book. Tradurre è stato entrare nella caverna del drago per dare senso a tutta l’opera di JRRT. E ci siamo sentiti in obbligo di avere una cura speciale per ogni vocabolo, così come sia Carpenter che soprattutto JRRT l’avevano messa nella loro scrittura. Mi ha lasciato una attenzione particolare per il linguaggio, prolungando un segno già impresso dal corso di scrittura che avevo seguito con Giuseppe Pontiggia nel 1988. All’epoca ero ancora un dipendente. Mi occupavo di marketing dentro una multinazionale e tradurre era un modo per portare il sogno e la passione dentro il lavoro. Lavoravamo in coppia in modo molto stravagante per l’epoca. Io traducevo registrando audiocassette (sì, quelle vecchie per le quali serviva a volte la… matita) e Franca sbobinava la mia traduzione mettendo ordine e riformulando il testo per renderlo migliore. E’ stato anche un modo per essere insieme durante le mie trasferte.
Sei persona dalle mille attività: consulente aziendale e ti occupi di marketing, sei autore di saggi su disparati argomenti (ecologia, vita di coppia, marketing). Tra queste cose so che, assieme a tua moglie Franca, tenete incontri di formazione per coppie e genitori. Sappiamo che Tolkien e sua moglie Edith erano entrambi orfani, e, nella biografia, ci vengono accennate le loro paure ed i loro desideri rispetto all’educazione dei figli. Ipotizziamo di annullare spazio e tempo e che tu e Franca vi trovaste davanti la giovane coppia formata da Ronald ed Edith, gravata della notevole responsabilità di crescere dei figli e cementare una famiglia in un momento di seria recessione economica. Che consigli ti sentiresti di dare loro?
Wow! Che domandone! Quello che posso suggerire a loro, come a tante coppie di oggi, è di credere alla loro unione. Come peraltro Beren e Luthien, chiamiamoli così, fecero. Loro contro il mondo. Se la coppia non è forte, la famiglia fa fatica. Insieme si affrontano tutte le sfide con le quali la vita può provocarci. Spiegheremmo loro, che già ben lo sapevano avendolo vissuto sulla loro pelle, che la vita sa essere difficile, ma il loro amore è sicuramente più forte finche lo tengono come sostegno per ogni fatica. Confidando in Dio. Annunceremmo loro che commetteranno tanti errori nell’educazione dei figli, ma se avranno veramente a cuore il loro bene, la somma sarà positiva. Per la verità, più che incontrarli come giovane coppia per consigliarli, preferirei incontrarli in riva al mare nella loro vecchiaia per farmi dire come hanno fatto ad arrivare sin lì con tanto coraggio e successo.
La fede di Tolkien è evidente, non solo dalla sua vita ma anche, sebbene in maniera meno esplicita, nelle sue opere. Credi che egli oggi possa ancora costituire un esempio per le nuove generazioni che, magari anche grazie alle trasposizioni cinematografiche, si avvicinano in questi anni? A tal proposito, credi che il successo delle trilogie di Peter Jackson e la tanto annunciata serie tv possano contribuire a far avvicinare i giovani all’approfondimento delle opere di Tolkien seguendo un metodo serio, oppure che essi possano accontentarsi di un tipo di fruizione più superficiale?
Il problema non sta nelle opere di JRRT né nella trasposizione in video. Il problema sta nella capacità di chi legge, ascolta, vede di andare oltre la superficie. Io posso anche riempire le mie opere di simboli e segni, ma se nessuno li coglie…. Non ho idea di come sarà la nuova serie tv, i film di Jackson li ho trovati splendidi e fedeli. Certo che se, come scrisse Paola Mastrocola in La scuola spiegata al mio cane, ad una generazione che sospira “c’è del marcio in Danimarca” quella nuova risponde “bhe, ma perché andare sino in Danimarca?” fraintendendo completamente la citazione dell’Amleto, non c’è più partita. Io mi auguro che siano da stimolo almeno per pochi. Così come fu per me: vidi una sera in tv, non riuscivo a dormire, una trasmissione che proponeva i nuovi film in distribuzione. Uno di questi era il cartone animato del Signore degli anelli: la versione di Ralph Baski del 1978. Rimasi folgorato. Andai a vederlo da solo al cinema Piccolo Eden di largo Cairoli a Milano. Il film si fermava al rapimento degli hobbit da parte degli orchi, o poco più in là. Uscii perduto dal cinema. Il giorno dopo alla libreria Puccini di corso Buenos Aires comperai la trilogia. Mi ricordo così bene questi particolari? Come due giovani che incontrarno un amico speciale “erano circa le quattro di pomeriggio”.
Tra gli studi tolkieniani in Italia, dall’inizio ad oggi, cosa trovi interessante e cosa a tuo giudizio manca o, piuttosto, si dovrebbe mettere in cantiere? Cosa pensi delle pubblicazioni delle tre grandi storie del Silmarillion curate negli ultimi anni da Christopher Tolkien?
Confesso: conosco poco. Ho dovuto fare scelte nella vita e dopo un intenso periodo tolkeiniano, culminato con la presenza insieme a grandi personaggi al convengo per i centenario della nascita di Tolkien che si svolse al Centro Culturale Manfredini il 28 novembre 1992, insieme a me parlarono quel giorno il cardinal Biffi, Franco Cardini, padre Guido Sommavilla e Raffaele Vignali, dovetti concentrarmi sul lavoro e perdere di vista gli studi Tolkeniani. Apprezzo comunque i nuovi saggi pubblicati, credo che ci sia ancora molto da raccontare e spiegare.
Questa intervista viene pubblicata sul sito STI, e fa parte di una serie di altre interviste la cui realizzazione è nata all’interno di un gruppo di studiosi raccolti attorno ad una giovane ma promettente associazione: I Cavalieri del Mark, gruppo locale marchigiano, ma con una forte presenza sui social e che collabora con molti studiosi italiani. Quanto credi che sia importante una rete interconnessa di studiosi, una sorta di gruppo di studio in cui le singole persone possono confrontare le loro idee?
Tantissima, specie oggi dove la comunità è stata riscoperta e rilanciata. Aiutarsi nel approfondire ciò che si ama è un dono per tutti.
Vivere con una morale: una recensione de “La Caduta di Gondolin”
di NATHANAEL BLAKE
Tolkien non immaginò per noi solo eroi, gloria e splendore, ma raffigurò la speranza in seguito alla rovina e alla tragedia.
Tutto ebbe inizio con un finale.
La prima storia della Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien fu il racconto di un disastro, scritto “in ospedale, in licenza dopo essere sopravvissuto alla Battaglia della Somme.” La sua “prima vera storia di questo mondo immaginario” narrava la distruzione della città nascosta di Gondolin, la più grande tra le città elfiche nelle terre mortali e l’ultima roccaforte contro Morgoth, il Grande Nemico. Il racconto non fu mai completato del tutto, sebbene sia citato in entrambi Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Questa saga di sciagura e speranza ben si adatta al tono e all’ambientazione della creazione di Tolkien. Le sue storie di mostri ed eroi illuminano la condizione morale del genere umano meglio di quanto non facciano le opere della nostra attuale cultura pop per adolescenti. Il problema non è più l’ambiguità del bene, quanto la mancanza della volontà di realizzarlo.
I vari frammenti e versioni della storia vengono ora pubblicati insieme. Ne La caduta di Gondolin l’anziano Christopher Tolkien ha curato, per l’ultima volta, un’opera incompiuta del padre. Egli aveva descritto la sua precedente fatica, Beren e Lúthien, come “presumibilmente” l’ultima; adesso scrive, “a novantaquattro anni, La caduta di Gondolin è (indubbiamente) l’ultima.” La narrazione completa nel dettaglio era presente esclusivamente nella prima versione della storia, ma quella versione è solo una bozza, risalente a un’epoca in cui Tolkien non aveva ancora definito né il materiale né lo stile. Negli anni successivi scrisse versioni sommarie o parziali della storia, e nell’incompleta redazione finale si avvicina allo stile maturo della sua miglior prosa elevata, della quale era ormai maestro.
Questo volume include anche materiale che colloca il racconto nel contesto della creazione tolkieniana più ampia. Vale la pena leggere questi frammenti aggiuntivi, anche da parte di chi ha già familiarità con la storia dei Giorni Antichi contenuta ne Il Silmarillion, poiché La caduta di Gondolin contiene frammenti di mitologia elfica, di storia e persino di escatologia non inclusi in quel volume. Nel complesso, la raccolta di testi e i commenti di Christopher Tolkien, assieme alle magistrali illustrazioni di Alan Lee, fanno di questo libro un’ultima degna aggiunta al canone tolkieniano.
La pubblicazione de La caduta di Gondolin fa seguito all’annuncio dell’anno scorso del passaggio del controllo della Tolkien Estate a una nuova generazione, la quale sembra aver maggior volontà di sfruttare il potenziale lucrativo delle licenze rispetto a Christopher e suo padre. E sembra improbabile che i capitani dell’industria dell’intrattenimento, ai quali mancano la visione e l’immaginazione morale di Tolkien, possano produrre buoni adattamenti.
Ma avremo sempre i libri.
Eärendil: un esempio di speranza e misericordia
Sia Lo Hobbit sia i tre volumi de Il signore degli anelli sopravviveranno come grandi opere pur mentre la letteratura (teoricamente) importante dell’ultimo secolo sarà per lo più dimenticata. Le creazioni fantastiche di Tolkien saranno pure immaginarie per soggetto e stile, ma la loro sostanza è reale. Le sue storie di elfi, orchi, maghi e anelli magici sono al tempo stesso più insolite e più immediate della letteratura, in teoria, seria del suo tempo. Egli scrisse degli Hobbit come se li avesse conosciuti per tutta una vita, e degli Elfi come se avesse fatto loro visita svariate volte; i suoi contemporanei scrivevano di uomini e donne comuni come se non ne avessero mai incontrato uno.
La caduta di Gondolin mostra quanto autentica fosse la familiarità di Tolkien con queste creature. Tolkien, nella sua immaginazione, aveva fatto visita agli Elfi per molti anni. La ricca trama de Il Signore degli Anelli scaturisce dalle profondità della creazione di Tolkien. Egli aveva scritto la mitologia e la storia del mondo che aveva creato, e ne aveva persino plasmato i linguaggi. Per questo motivo i riferimenti alla storia della terra di Mezzo suonano come reali, e le parole, le frasi, e persino le poesie nelle lingue da lui inventate sembrano autentiche, piuttosto che un frettoloso miscuglio di sillabe e suoni. Gli scorci delle antiche leggende sembrano reali perché quelle stesse leggende sono state create con cura ed intessute nell’intreccio di quel mondo. La rivelazione postuma della vasta creazione di Tolkien arricchisce la lettura delle sue opere concluse.
Gondolin ed il suo tragico destino furono parte del mondo di Tolkien sin dall’inizio, ed il racconto divenne un ponte tra i suoi protagonisti hobbit ed il lontano passato del mondo che abitavano— un passato che era andato per lo più perduto a cagione del tempo e della violenza. Per i lettori de Lo Hobbit, La caduta di Gondolin rappresenta il primo sguardo desolato nel lontano passato della Terra di Mezzo, nel momento in cui Elrond identifica le spade prese ai troll come “lame molto antiche degli Alti Elfi dell’Ovest, la mia gente. Furono fatte a Gondolin . . . draghi e goblin distrussero la città molti anni fa.” Il Signore degli anelli è ancor più velato dal passato, comprese le storie inedite di Gondolin. Come Elrond dice a Frodo, “la mia memoria arriva persino ai Giorni Antichi. Eärendil era il mio Sire, nato a Gondolin prima della sua caduta.”
Ed Eärendil era figlio di Tuor, l’eroe de La caduta di Gondolin. Tuor era un uomo di grandi capacità e nobile ascendenza che fu inviato nella città nascosta di Gondolin con un messaggio profetico di speranza per gli Elfi esiliati della Terra di Mezzo. Se avessero marciato tutti insieme contro Morgoth, avrebbero ricevuto aiuto dai Valar, i guardiani angelici e signori del mondo.
Eppure, sebbene Tuor fosse divenuto grande tra gli Elfi della città, tanto persino da sposare la figlia del re, la sua missione fallì poiché il re amava troppo la sua grande città e non l’avrebbe messa in pericolo andando in guerra. Il macabro risultato della vicenda è indicato dal titolo del racconto, poiché Gondolin fu scoperta, tradita, e distrutta dalle forze di Morgoth in una tremenda battaglia. Per quanto Tuor e la sua famiglia riuscissero a fuggire con quanto restava del loro popolo, il trionfo di Morgoth pareva completo.
Cionostante, dalla desolazione e dalla disperazione, un’inattesa speranza sorse dall’unione di Uomini ed Elfi. Eärendil nacque da un uomo mortale e un’immortale fanciulla elfica (unione rara e sempre portentosa nella Terra di Mezzo). Come rappresentante di entrambi i popoli, egli viaggiò per nave fino alla dimora dei Valar nel remoto Occidente e invocò il perdono per gli Elfi esiliati e l’aiuto per i popoli della Terra di Mezzo. E i Valar mossero guerra contro Morgoth e lo bandirono dal mondo.
Tolkien non compose mai il racconto di Eärendil eccetto che nella forma di un riassunto (i lettori de Il Signore degli Anelli probabilmente ricordano che Bilbo compose dei versi a riguardo). Sarebbe stato la trionfale conclusione dei racconti dei Giorni Antichi di Tolkien, pieni di eroismo nel mezzo della sofferenza, del dolore e della tragedia. La storia della caduta di Gondolin è sempre stata ben più che un racconto tragico di eroica sconfitta. Quando ogni resistenza appariva inutile e la speranza perduta, i sopravvissuti di Gondolin trovarono la misericordia divina e il soccorso. Dalla distruzione di Gondolin venne la rovina di Morgoth.
La realtà morale (nostra e di Tolkien)
Questa è la visione morale che plasma la creazione di Tolkien. Contrariamente a quanto alcuni critici affermarono, Tolkien non presenta un universo morale semplicistico—buoni contro cattivi. Le mostruose manifestazioni fisiche del male nell’opera di Tolkien non nascondono i conflitti morali nel cuore degli uomini (o elfi, nani, hobbit, e così via) ma li illuminano. La minaccia dei mostri mette gli uomini alla prova. Le sfide morali su cui Tolkien si concentra sono il compiere il bene quando il male appare una soluzione più facile, il resistere al male quando opporsi sembra inutile, e l’evitare di compiacersi quando sembra inevitabile farlo.
Il potere a tratti soverchiante del male—fisicamente incarnato nei Signori Oscuri (Morgoth e poi Sauron) e nei mostri da loro creati e comandati—deve essere fronteggiato anche quando il suo trionfo sembra ineludibile. Non possiamo affidarci alla segretezza delle fortezze, il cui proposito è di preservare e coltivare la forza che alla fine dovrà affrontare il male. E sebbene il coraggio che consiste nel non temere personalmente di affrontare il nemico sia importante per coloro che combattono il male nel mondo di Tolkien, non è comunque sufficiente. Turgon, il re di Gondolin, senza dubbio era coraggioso nell’affrontare la possibilità del proprio ferimento o morte in battaglia, ma non avrebbe messo a rischio la sua città, persino davanti alla promessa di una sconfitta definitiva del male per aiuto divino.
Ovviamente, un simile aiuto divino non viene sempre promesso, né nel nostro mondo né nella Terra di Mezzo. Non siamo padroni del mondo, e non possiamo sempre sapere quando la nostra lotta porterà frutto. Potremmo risultare inaspettatamente vittoriosi, oppure la nostra sconfitta potrebbe creare comunque le circostanze per una futura vittoria altrui. Ciò che non dobbiamo fare è arrenderci al male o alla disperazione. Nei racconti di Tolkien, i più grandiosi successi del male non richiedono solo mostri e macchinazioni, ma la debolezza e malvagità degli Uomini liberi, degli Elfi, e così via.
L’opera di Tolkien rende chiaro come la debolezza morale sia il reale problema della condizione umana, non i dilemmi e l’incertezza morale. Questi ultimi sono rari, la prima è dappertutto. Raramente commetto un torto perché non so cosa è giusto; spesso faccio un torto perché è una soluzione divertente, facile, o in altro modo seducente.
Tolkien non era un semplificatore della morale ma un realista. Poteva scrivere di tragedia e ambiguità morale (vedi I figli di Húrin, per esempio), ma sapeva che a noi principalmente manca la volontà di agire bene, piuttosto che la conoscenza di ciò che è giusto, e così i suoi racconti portano l’immaginazione morale in soccorso della volontà. Identificandoci con i suoi eroi, desideriamo scegliere di agire bene, ma ci viene costantemente ricordata la nostra capacità di cedere alle tentazioni e fare del male.
Le sue opere non riempiono i lettori di compiacimento della propria giustizia. I suoi eroi sono tali non perché siano moralmente incorruttibili, ma perché potrebbero essere corrotti (o certamente spinti alla disperazione, quando non al compiere il male), ma resistono alla tentazione. Ne Il Signore degli Anelli, Frodo alla fine soccombe all’Anello, ma viene salvato comunque in virtù della pietà che precedentemente aveva mostrato verso Gollum.
Un simile profondo universo morale ebbe inizio quando, sopravvissuto al fango e alla morte della Grande Guerra, Tolkien non immaginò per noi solo eroi, gloria e splendori, ma raffigurò la speranza in seguito alla rovina e alla tragedia.
La caduta di Gondolin è stata un nuovo inizio nella Terra di Mezzo.
L’autore
Nathanael Blake, PhD in Political Theory. Giornalista, i suoi articoli sono pubblicati su varie testate di rilievo come The Federalist e il Catholic World Report. Vive in Missouri.
I traduttori
Greta Bertani, laureata in Lingue e Letterature Moderne con tesi su Tolkien. Libera ricercatrice, traduttrice, e mamma. Nel 2011 esce la sua monografia Le radici profonde – Tolkien e le sacre scritture. Traduce in inglese il libro di Oronzo Cilli Tolkien l’Esperantista, pubblicato nel 2017. Collabora a diverso titolo con varie realtà tolkieniane italiane tra cui Ardalambion, Tolkien Italia e i Cavalieri del Mark.
Giovanni Costabile, laureato magistrale in Scienze Filosofiche. Libero ricercatore, scrittore, traduttore, pubblica articoli su Tolkien su riviste prestigiose come Tolkien Studies (2017), Inklings Jahrbuch (2017), Mythlore (2018). Relatore di conferenze, già membro attivo della Tolkien Society, Società Tolkieniana Italiana, Medieval Academy of America. Nel 2018 conduce ricerche presso la Weston Library di Oxford e di seguito pubblica la sua prima monografia, Oltre le Mura del Mondo : Immanenza e Trascendenza nell’opera di JRR Tolkien.
Tolkieniani Italiani – intervista a Paolo Gulisano
La serie di interviste dei Tolkieniani Italiani prosegue con un nome ben noto ormai da lungo tempo tra gli appassionati: si tratta di Paolo Gulisano, uno dei primi in Italia a scrivere e pubblicare su J.R.R. Tolkien. Di seguito le risposte alla serie di quesiti postigli da un Giuseppe Scattolini particolarmente ispirato.
Paolo Gulisano: nel mondo tolkieniano sei conosciuto come un divulgatore di massimi livelli. Tuttavia, è sufficiente una piccola ricerca per vedere coi propri occhi quanto ampia e varia sia la tua produzione. Ed il tuo mestiere è fare il medico. Chi è allora Paolo Gulisano? Il medico? Il divulgatore? Lo studioso? Lo scrittore?
Sono un medico di professione e uno scrittore per passione. Potrei anche dire che sono un medico umanista:una categoria che si sta assottigliando in un tempo che vede un’evoluzione della medicina in senso sempre più tecnicistico, se non addirittura burocratico. Questo significa che il significato del mio lavoro è il “prendermi cura”, delle persone, naturalmente, ma potrei dire che mi prendo cura anche della cultura, della storia, e questo è il nesso col mio impegno di scrittore, di saggista, di divulgatore. Tutto all’insegna del prendersi cura, quindi.
Parlando della tua passione tolkieniana, come hai conosciuto Tolkien? Il Professore di Oxford è solo una tra le tante delle tue passioni o ha un posto privilegiato nel tuo cuore?
Ho conosciuto Tolkien alla fine del Liceo. Ero un appassionato di Miti e saghe antiche. Venni a conoscenza che un autore contemporaneo (Tolkien era morto 5 anni prima che leggessi Il Signore degli Anelli) si era cimentato in una riscrittura delle antiche leggende medievali. Sinceramente, ero un po’ perplesso, ma grazie a Dio sono curioso e volli leggerlo: ne rimasi folgorato. Mi trovai ovviamente di fronte a molto di più che una semplice “rivisitazione” degli antichi miti, ma ad un’opera epica originale, straordinaria. Era uno dei libri più affascinanti che avessi mai letto, e tenete conto che di libri ne leggo veramente tanti. Posso quindi dire che Tolkien da allora ha occupato un posto davvero privilegiato nel mio personale orizzonte culturale e nei miei affetti. Certamente, ho anche altri interessi e autori che mi sono cari, ma molti di loro- come Lewis o Chesterton- si intrecciano col Professore di Oxford. Devo dire inoltre che la storia e la cultura delle Isole Britanniche ha sempre esercitato nei miei confronti una notevole attrazione, e la gran parte delle mie opere è dedicata a questi temi: dall’Irlanda alla Scozia, alla Letteratura Vittoriana. Da Oscar Wilde al Peter Pan di Barrie, dalle rivolte irlandesi all’indipendenza della Scozia, negli ultimi 20 anni mi sono mosso molto con la penna tra Dublino e Oxford, tra Londra e Glasagow!
A partire dalla tua notevolissima esperienza e dai tanti incontri tolkieniani che hai tenuto fino ad oggi, qual è la tua opinione sull’impatto che la cinematografia tolkieniana ha sui tolkieniani? E non penso solo alle due trilogie di Peter Jackson, ma anche al precedente film di Ralph Bakshi, e al presumibilmente prossimo biopic sul giovane Tolkien e alla serie tv che dovrebbe uscire nel 2020, oltre che alle fan-fiction come l’eccellente “Born of Hope” e le altre minori, a parer mio, come “I diari della Terza Era” e “La caccia a Gollum”.
Sicuramente la cinematografia ha avuto un impatto potente sull’immaginario dei lettori, specialmente quelli più giovani; se chiedessimo ad uno di questi lettori di descriversi ad esempio Aragorn, credo che nella quasi totalità dei casi verrebbe fuori il ritratto di Viggo Mortensen, e così per gli altri personaggi. La mia generazione invece aveva negli occhi le illustrazioni dei grandi disegnatori. Il grande merito delle trilogie jacksoniane è stato quello di diffondere ad un pubblico vastissimo l’opera tolkieniana. Gli Elfi, i Nani, nonché l’idea stessa di un mondo che non esiste ma che è plausibile si è diffuso, è diventato parte dell’immaginario collettivo, e un lettore di narrativa fantastica non è più visto come un personaggio strano ed eccentrico, da compatire. Credo che anche le produzioni in divenire potranno contribuire a realizzare quello per cui personalmente mi batto da tanto tempo: mostrare Tolkien come un vero e proprio Classico della Letteratura.
Riguardo invece a due grandi di cui hai scritto, John Henry Newman e Gilbert Keith Chesterton: sappiamo per certo che entrambi influirono su Tolkien, e che lui li conosceva molto bene. Secondo te, come e in quale misura il Professore di Oxford è stato influenzato, anzi, dirò meglio, educato da questi due grandissimi pensatori?
Molti critici ed interpreti tolkieniani hanno sottolineato l’importanza delle fonti narrative sull’opera di Tolkien: i miti nordici, l’Edda, il Kalevala. Tutto vero. Ma egli non sarebbe diventato l’Autore che conosciamo senza altri fondamentali contributi avuti nella sua formazione culturale e umana. Al massimo sarebbe diventato uno studioso ancora più prestigioso, autore di grandi lavori esegetici. Uno straordinario filologo. Invece divenne un eccezionale romanziere, e questo anche grazie a questi due maestri, Newman e Chesterton. John Henry Newman, il fondatore dell’Oratorio di Birmingham, una delle scuole frequentate dal piccolo Ronald, arrivò a lui attraverso la mediazione della madre, che si era convertita al Cattolicesimo proprio grazie al grande teologo, e alla mediazione del suo tutore e mentore, padre Francis Xavier Morgan. Tolkien crebbe nello spirito di Newman, che è uno spirito di ricerca della verità, e di affidamento alla luce gentile della Fede. Fu la religiosità di Newman – solida, ortodossa, intellettualmente vivace- ad educare ed edificare la coscienza e il senso religioso di Ronald. Chesterton, invece, di cui Tolkien fu attento lettore, gli aprì la prospettiva dell’immaginazione. Un’immaginazione che non è finalizzata solo alla rievocazione di battaglie e dinastie del passato, ma diventa strumento per indagare nel cuore di ogni creatura, per descrivere vizi e virtù, per ritrarre la condizione umana. Una fantasia che non è fuga dalla realtà, ma apertura di prospettive. Tolkien stesso riconosce questo debito nei confronti di G.K. Chesterton nel suo fondamentale saggio sulla letteratura fantastica pubblicato in Albero e foglia.
Infine: ti sto intervistando per conto dei Tolkieniani Italiani. Siamo sul sito STI, io sono il presidente dei Cavalieri del Mark, ed a pubblicare questa intervista sarà Gianluca Comastri, di Eldalië. Tolkieniani di tutta Italia non legati da nessun vincolo che non sia la comune passione tolkieniana ed i medesimi valori leggeranno le tue parole, studiosi e appassionati. Pensi che questa nuova iniziativa possa andare lontano e mantenere le promesse?
Non solo lo penso, ma me lo auguro con tutto il cuore. Il mondo dell’associazionismo tolkieniano italiano ha una lunga storia alle spalle, nasce ben prima dei film e di tutti i fenomeni anche ludici (pensiamo ai Cosplay) che ne seguirono. Ha bisogno senz’altro di realtà competenti e appassionate in cui condividere questa passione, e Tolkieniani Italiani ha tutte le caratteristiche per rappresentare questo desiderio.
Tolkieniani Italiani – Intervista a Sebastiano Brocchi
L’attività dei Tolkieniani Italiani sul nostro sito inizia con l’intervista a un amico e autore di narrativa.
Sebastiano B. Brocchi, nato il 18 marzo del 1987, è originario di Montagnola (Svizzera) dove risiede tutt’ora. In terza liceo lascia gli studi per diventare scrittore e ricercatore autodidatta nel campo della storia dell’arte, della filosofia ermetica, della simbologia sacra e dell’alchimia interiore. Nel 2004 ha pubblicato la sua prima opera, il breve trattato “Collina d’Oro – I Tesori dell’Arte”. Negli anni successivi hanno visto la luce “Collina d’Oro Segreta” (2005), libro che ha suscitato scalpore nella cronaca ticinese, e “Riflessioni sulla Grande Opera” (2006), considerato dagli specialisti un testo magistrale di alchimia. É del 2009 il saggio, dedicato all’interpretazione esoterica delle fiabe tradizionali, “Favole Ermetiche”. Nel 2011 dà alle stampe la prima opera di narrativa, il giallo storico “L’Oro di Polia”, mentre nel 2012 prende avvio la saga fantasy dei Pirin con la prima edizione del volume “Le Memorie di Helewen”. Il secondo volume della saga, “Hairam Regina”, viene pubblicato nel 2016. É inoltre autore di numerosi articoli, interviste a importanti personalità internazionali e approfondimenti apparsi su riviste e siti web sia svizzeri che italiani. La sua opera tutta, da Favole Ermetiche a L’oro di Polia, per non parlare della saga di Pirin, sta ricevendo grande riscontro sia da parte del pubblico sia della critica, un riscontro a nostro giudizio meritatissimo. Lo intervista per noi Giovanni Carmine Costabile.
Vuoi raccontarci come è nata l’ispirazione per la trilogia, che ricordiamo comprende Le memorie di Helewen, Hairam Regina e Le gesta di Nhalbar, oltre ad alcuni derivati multimediali come il videogame Eselmir e i cinque doni magici?
Sono passati diversi anni, una quindicina almeno. Credo che le prime ispirazioni mi siano venute già sui banchi di scuola, alle medie, e negli anni del liceo iniziavo già a riempire cartelle di schizzi e appunti… penso che l’idea di una “grande saga”, nel senso di un universo corposo che si prestasse a un’espansione narrativa molto ampia e articolata, mi sia venuta dall’amore incondizionato che provai per i film di “Star Wars”. Tuttavia, fu con l’uscita della trilogia cinematografica de “Il Signore degli Anelli” che scoprii l’universo tolkieniano e – sebbene a chiaroscuri – compresi di voler indirizzare la mia saga su quel filone letterario anziché su una space opera. Dicevo “a chiaroscuri” perché sebbene molti elementi tolkieniani mi avessero assolutamente catturato ed entusiasmato, altri aspetti, come penso sia naturale, non li sentivo molto sulle mie corde. Ma al di là di queste “spinte” iniziali derivate in parte dalla cinematografia, devo dire che un’altra mia grande passione già in quegli anni giovanili fosse la storia antica. Avrei tanto voluto emulare (nel mio piccolo, è chiaro) la maestosa eredità dei grandi poemi epici e di altre opere intramontabili prodotte dalle civiltà del passato: opere intrise di una forza magica, che ha sempre esercitato su di me un fascino molto maggiore rispetto alla letteratura contemporanea.
Come già hai avuto modo di sapere questa serie di interviste vuole rintracciare l’eredità di Tolkien negli autori fantasy italiani contemporanei (in lingua italiana, nel tuo caso, essendo svizzero). Perciò ti chiedo direttamente: che ruolo ha avuto Tolkien nella tua scrittura? Come lo hai conosciuto? In che rapporto ti consideri rispetto a colui che da molti è considerato il padre del genere fantasy?
Sicuramente, come in parte già accennato, la principale influenza tolkieniana l’ho ricevuta dalle recenti trasposizioni cinematografiche. Sono quelle ad avermi fatto avvicinare all’opera del Professore, ma sarò sincero: malgrado la grande ammirazione e il trasporto per l’autore, non ho in seguito approfondito la sua opera tanto da potermi definire un esperto. Molti pensano che alcuni elementi della saga “Pirin” si rifacciano a Tolkien, e magari quando me lo fanno notare mi trovo nell’imbarazzante situazione di non sapere di cosa stiano parlando: nella maggior parte dei casi, la verità è che Tolkien ed io abbiamo attinto da simili fonti, ma si tratta di fonti ben più antiche. Ho iniziato già da adolescente a divorare letteratura – spesso di origine precristiana o medievale – che spaziasse dalla mitologia ai testi sacri di varie religioni, passando dal folklore alle fiabe e leggende di diversi popoli. Perciò è facile che qualora compaiano elementi comuni tra le mie opere e quelle di Tolkien, più che una derivazione diretta possa trattarsi di una rielaborazione di archetipi, parole, simboli, dei secoli o dei millenni passati. Inoltre, ed è un elemento che purtroppo è emerso fin troppo poco dagli studi tolkieniani, il Professore condivideva una passione che ha dominato anche la mia ricerca personale: l’Alchimia, intesa come scienza della trasformazione interiore dell’individuo. Personalmente ho ritrovato moltissimi elementi della più pura tradizione alchemica ed ermetica nell’opera di Tolkien. Gli esempi non si contano: potrei citare il gonfalone di Gondor (riproposizione dell’albero alchemico con le sue sette stelle), o le fasi narrative ispirate alle fasi della Grande Opera: discesa nelle miniere di Moria (Nigredo) assedio della città bianca di Minas Tirith (Albedo) e raggiungimento del fuoco del Monte Fato (Rubedo). I vari riferimenti al Fuoco Segreto…
Ciò che ho maggiormente apprezzato di Tolkien, oltre alla cura per la lore, allo stile aulico e la profondità quasi “religiosa” o meglio ancora “esoterica”, sono gli elementi anche esteticamente più riusciti, ovvero ad esempio l’eleganza della civiltà elfica, o di alcuni luoghi emblematici come Minas Tirith (alla cui interessante tipologia costruttiva e ai suoi precedenti ho dedicato, tra l’altro, un articolo intitolato “La città concentrica. Archetipo del cosmo e della fortezza interiore”).
Quel che invece ho apprezzato meno in Tolkien – ma devo dire in particolare nella trasposizione cinematografica – è l’indugio in elementi più grotteschi, come le varie razze di orchi, e il fatto che un mondo potenzialmente così bello si trovi di fatto – all’epoca degli eventi principali – al tramonto e in rovina. Credo che questa sia un’altra grande differenza rispetto alla mia saga “Pirin”, almeno per quanto riguarda le ambientazioni. Gli eventi salienti della trama descritti nel secondo e terzo volume (perché il primo volume costituisce una sorta di retrospettiva, se vogliamo) si svolgono all’epoca del massimo splendore delle civiltà del continente, cioè in un mondo ancora brulicante di vita e iniziativa, monumentale e popoloso, che richiama i fasti degli antichi imperi.
Complimenti per la sezione dedicata alla vita e alle usanze dei Pirin. Sembra quasi di leggere uno dei trattati filosofici utopistici sulla città perfetta che abbondano nella tradizione occidentale, dalla Repubblica di Platone alla Città del sole di Tommaso Campanella, per non parlare ovviamente di Utopia di Tommaso Moro. Scorgo anche un influsso sottile del socialismo ottocentesco, se non sbaglio, nella particolare attenzione all’aspetto del lavoro nel regno dei Pirin. Ma ovviamente un altro modello è senz’altro la Contea di Tolkien. A cosa pensavi in realtà? Ho indovinato qualcosa?
Ti ringrazio. Sì, hai azzeccato buona parte dei principali “influssi”. Aggiungerei anche alcune allusioni a realtà idilliache e utopiche descritte nei racconti orientali e mediorientali, come la celebre Śambhala, i vari miti edenici e sulle età dell’oro di varie civiltà, senza dimenticare un luogo che ha sempre esercitato grande influenza sul mio immaginario: il continente perduto di Atlantide, di cui adorai la descrizione platonica. La Contea tolkieniana può condividere con la mia Lothriel forse l’atmosfera serena e “fuori dal mondo”, ma la prima è molto più rustica e semplice rispetto alla seconda, la quale è invece più monumentale, elegante e sofisticata.
Il primo volume, Le memorie di Helewen, si apre con una scena, l’arrivo della zattera dei genitori di Nhalfordon-Domenir alla dimora di Helewen, dove affidano loro figlio alle cure del tutore, un Pirin, che lo istruirà in merito alla storia (e alle storie) del mondo, della sua stirpe e di sé medesimo, narrazioni che costituiscono il resto del libro, con poche interruzioni. L’impressione che se ne ricava è di un impianto accuratamente studiato per introdurre il lettore gradualmente nel tuo mondo. Hai avuto qualche ispirazione nel disegnare questa struttura espositiva? Un lettore tolkieniano non può che pensare ai Racconti ritrovati…
In realtà credo che in questo senso la maggiore fonte d’ispirazione sia stata la Shahrazād delle “Mille e una notte”. Ma anche il ciclo arturiano, in particolare nei romanzi cortesi di Chrétien de Troyes. Senza dimenticare altri celebri cicli di racconti (qualche traccia appena accennata di Decamerone, tanto per dirne una…). Non tralasciamo la grande influenza dei cosiddetti “testi sacri”. Da quelli indiani fino alla Bibbia, passando dall’epica omerica.
In generale, come giustamente evidenzi, il primo volume vuole introdurre al “mondo narrativo” in modo graduale, evidenziando il background attraverso l’espediente di racconti inanellati ma di epoche diverse. Lo stile narrativo e la psicologia dei personaggi, nel primo volume, sono volutamente vicini all’astratto, al fiabesco, all’archetipico, con personaggi semplici, in grado di rappresentare un determinato valore etico e umano. Con il procedere della narrazione, nel secondo e terzo volume, gli eventi si fanno ravvicinati, proprio come i personaggi, che acquistano via via una psicologia sempre più stratificata, poliedrica, sfuggente, difficile da inquadrare nell’ottica di stereotipi caratteriali. I sentimenti iniziano a scendere dal loro “piedistallo” di archetipi e si fanno squisitamente umani, sofferti, talvolta incomprensibili. Viene progressivamente mostrato il male che si cela nel bene e il bene che si cela nel male, la luce nell’ombra e l’ombra nella luce, un po’ come nel simbolo del Tao.
Come Tolkien, anche tu ti ispiri chiaramente alle tradizioni popolari e folcloriche raccolte nelle fiabe e nei racconti di mezzo mondo. Credi anche tu che, come sintetizza mirabilmente C.S. Lewis, grande amico di Tolkien, “un giorno sarai abbastanza grande da ritornare a leggere le fiabe”? O forse, come dice il comico Alessandro Bergonzoni, “dobbiamo smetterla di raccontare favole ai bambini per addormentarli. Iniziamo a raccontargli favole per svegliarli”?
Assolutamente sì. Sono anzi convinto che non solo i bambini, ma anche la gran parte degli adulti non sospetti minimamente l’immenso patrimonio di saggezza racchiuso da fiabe, favole e racconti considerati “per l’infanzia”. Libri come “La Storia Infinita”, “Il Mago di Oz”, “Pinocchio”, “Il Piccolo Principe”, passando dalle fiabe tradizionali raccolte dai Fratelli Grimm, La Fontaine ecc… sono solo alcuni esempi di opere dal contenuto filosofico altissimo, immenso, molto più di certi libri ritenuti “per adulti” ma che, al contrario, si soffermano talvolta su aspetti della vita molto più superficiali, transitori, futili, o che imbrigliano la saggezza in uno sterile linguaggio razionale, dimenticandosi di parlare realmente al cuore, all’anima.
I più grandi autori di fantasy del Novecento, come Tolkien o Lewis, Ende (il mio preferito) ma mi permetto di annoverare anche qualche autore tra virgolette “minore”. come Gaiman con il suo Stardust, hanno saputo affidare alle loro opere “per ragazzi” uno spessore iniziatico che le avvicina ad alcuni dei più eccelsi componimenti del passato, come ad esempio il misticismo della poesia Sufi, i Veda, ecc…
Una profondità che personalmente non riconosco ad autori odierni di bestseller del fantasy “per adulti”, preoccupati soltanto di avvincere con trame politiche, violenza ed erotismo: ingredienti che li rendono soltanto commercialmente più appetibili ma che, dal mio punto di vista, non li renderanno immortali, perché privi di un vero Messaggio in grado di valicare i tempi e gli spazi.
Un altro grande elemento che ho riscontrato in comune con Tolkien è il ruolo centrale dell’amore, soprattutto coniugale e parentale, e quindi della donna, dei genitori e dei figli. Come in Tolkien, per ogni dio c’è una corrispondente dea, anzi addirittura, nel mondo di Pirin, ogni dio ha un aspetto maschile e un aspetto femminile, il cui nome si ricava aggiungendo ‘ah’ al nome del dio maschile (Aedaran→ Aedaranah), oppure mutando in ‘h’ la ‘r’ finale (Foladar→ Foladah). Come in Beren e Lúthien, spesso per i tuoi personaggi è l’amore per una donna eccezionale a motivare le loro imprese (penso soprattutto a Theoson, l’amante di Uhilyn, ma anche a Osondel, desideroso di prole, alla rivalità tra Filo Carminio e Filo Cobalto per la bella Budalidor, all’amore di Folsarèd per la ninfa-cerva…). Cosa puoi dirci a riguardo?
Hai colto quello che è sicuramente un risvolto fondamentale della mia opera. Con “Pirin” ho cercato di raccontare molte forme dell’amore e di come questo possa abbassare o innalzare l’individuo nel suo percorso di affinazione e maturazione. Anche qui vale quanto detto in precedenza riguardo all’evolversi narrativo della trilogia: nel primo volume troviamo amori molto fiabeschi, incondizionati, univoci, assimilabili a quelli dei grandi drammi shakespeariani, dello stilnovismo o della poesia trobadorica. L’avanzamento della narrazione, il suo passaggio temporale dal “tempo del mito” al “tempo degli uomini”, complica decisamente le cose. “Hairam Regina” è dominato dalle grandi passioni, anche distruttive, un costante rimescolarsi emotivo, mentre “Le Gesta di Nhalbar” (il più mistico dei tre) conduce a nuove e più profonde riflessioni, abbracciando suggestioni iniziatiche che avvicinano i personaggi alla comprensione di più vasti misteri divini, e dunque a forme di amore che travalicano i destini e gli interessi individuali.
Avendo menzionato una chicca linguistica della tua opera, non posso che interrogarti anche sulla creazione dei linguaggi del tuo mondo. Quali sono i tuoi modelli linguistici? Tolkien prese essenzialmente a modello il gallese e il finlandese per le sue lingue elfiche, nel tuo caso sbaglio a dire che si sente anche un influsso mediorientale?
Non sbagli. Gli influssi sono molteplici ma è innegabile l’apporto da matrici linguistiche sanscrite, mesopotamiche, egizie, semitiche, greche, latine. Non mi sono fatto mancare neanche ispirazioni precolombiane e da altri ceppi linguistici più circoscritti, di varie parti del mondo. In qualche caso si trovano anche inversioni, o sottili giochi di parole (Helewen s’ispira alle parole inglesi Hel e Heaven, per alludere al fatto che in ogni uomo convivano inferni e paradisi) o citazioni derivate dalla cultura fantasy e fantascientifica più recente. Il nome del Dio supremo Inkahal, ad esempio, è ispirato all’Incal di Jodorowsky, mentre il nome del regno di Lothriel evoca sicuramente atmosfere più tolkieniane.
Ad ogni modo la formazione della lingua dei Pirin è stata uno degli aspetti più laboriosi, perché volevo che fosse strutturata in modo “credibile”, con un vocabolario e proprie regole grammaticali. Non un linguaggio “di facciata” utile soltanto per comporre qualche breve formula magica come se ne trovano diversi esempi nella letteratura coeva, bensì una lingua “funzionante” a tutti gli effetti. Tra l’altro nella colonna sonora del videogame “Eselmir e i cinque doni magici” si trova una canzone interamente scritta in lingua Pirin (il cui testo e la cui melodia sono tratti direttamente dal primo volume della trilogia di romanzi) che per l’occasione è stata intonata da due promettenti studenti di musica del Liceo Cantonale di Bellinzona. Questo ha rappresentato un’ulteriore sfida verso il realismo di questa lore, perché ha permesso alla lingua Pirin di staccarsi dalle pagine stampate e di raggiungere il banco di prova del livello fonetico. Un passaggio delicato poiché, per essere credibile, una lingua deve anche distinguersi per una particolare tonalità, cadenza, pronuncia, e risultare naturale.
Mi ricollego all’ultima domanda e alla precedente sulle fiabe per chiederti: viene spontaneo un dubbio leggendo la saga dei Pirin. Se, come dicevo prima, è chiaro che, provenga dalle Storie di Erodoto o dalle Mille e una notte, entrambe fonti anche di Tolkien, si respira, più ancora che in Tolkien stavolta, un’aria di folklore orientale di riscontro a tant’altro celtico e nordico, sbaglierei a dire che, lette nel modo più giusto, anche le storie dei Pirin si possono definire Favole Ermetiche, il titolo di un altro tuo libro molto apprezzato?
Decisamente. È una saga dalla fortissima componente ermetica ed esoterica, proprio perché in questo vasto corpus di trame e sotto-trame (quasi duemila pagine soltanto i romanzi, senza contare i derivati multimediali) ho cercato di condensare i frutti del mio percorso interiore. Non si tratta di libri che nascono a scopo di intrattenimento. Il loro intento maggiore è quello di lasciare qualcosa al lettore, che possa accompagnarlo nella vita di tutti giorni, verso la propria realizzazione personale, umana, la riscoperta e la coltivazione di quella “scintilla divina” che lo rende un miracolo unico e irripetibile. Questo non avviene soltanto in modo esplicito attraverso ciò che effettivamente i racconti spiegano: si può dire anzi che la componente narrativa sia la punta dell’iceberg. Si tratta di una saga estremamente simbolica: quasi tutti gli eventi e i personaggi, ma anche i luoghi o gli oggetti, possono essere riconducibili al vissuto interiore di ognuno, e ci sono dunque diversi possibili livelli di lettura.
Da qui l’esortazione dell’oracolo rivolta ai Pirin “Dovrete trovare l’oro per il vostro tempio molto più in profondità”.
Infine chiudiamo con una domanda tecnica. Hai speso chiaramente grande quantità di tempo ed energie per realizzare un mondo dettagliato e coerente, in altre parole hai fatto un gran bel lavoro di worldbuilding. Hai dovuto fare molte ricerche per riuscire in un mondo completo e coerente? Come rapporteresti il tempo, suppongo preliminare, dedicato al puro worldbuilding, rispetto al tempo di scrittura vera e propria dei romanzi? E, per concludere, se dovessimo decidere, in vena di grandi semplificazioni, di definire ogni mondo con un semplice aggettivo, Arda è ‘elfica’, Narnia è ‘allegorica’, il Potter-verse è ‘magico’, Westeros è ‘machiavellico’, il mondo dei Pirin è…?
Se dovessi quantificare in modo molto approssimativo, direi che il worldbuilding abbia rappresentato un buon 70% del lavoro e dunque del tempo. In fondo, una volta definita gran parte della lore, il grosso del lavoro di stesura ovvero della parte spiccatamente narrativa è durato relativamente poco. Basti pensare che tra la pubblicazione del secondo e del terzo volume (il più lungo dei tre) è passato più o meno un anno.
Volendo trovare un aggettivo per il mondo dei Pirin credo si possa proporre il termine “mistico”, nel senso più ampio e intimo di un sentimento del sacro non inquadrabile in un contesto religioso e dogmatico, in una corrente o ideologia.
Di nuovo, a nome mio personale di Giovanni Carmine Costabile, del supervisore delle interviste Gianluca Comastri, del gruppo Tolkien nelle Marche – I Cavalieri del Mark, e di tutta la Società Tolkieniana Italiana, grazie di cuore!
Un sentito ringraziamento anche a voi tutti per l’interesse dimostrato nei confronti del mio lavoro, e a te Giovanni, in particolare, per questa bella intervista da cui traspare tutta l’attenzione e sensibilità del tuo approccio ai libri che affronti, e l’invidiabile cultura che ti permette di cogliere preziose connessioni ipertestuali che ad altri magari sfuggono.
L’intervistatore
Giovanni Carmine Costabile (Dott. Mag., 1987-) Libero ricercatore, scrittore, traduttore, pubblica articoli su Tolkien e la letteratura medievale su riviste prestigiose come Tolkien Studies (2017), Inklings Jahrbuch (2017), Mythlore (2018). Relatore di conferenze in Italia e Inghilterra dal 2016, già membro attivo della Tolkien Society inglese, Società Tolkieniana Italiana, Medieval Academy of America. Nel 2018 conduce ricerche su Tolkien e Gawain presso la Weston Library di Oxford e di seguito pubblica la sua prima monografia, Oltre le Mura del Mondo : Immanenza e Trascendenza nell’opera di JRR Tolkien, con prefazione di padre Guglielmo Spirito, introduzione di Oronzo Cilli e postfazione di padre Alberto Quagliaroli, volume che riscuote il plauso generale della critica in Italia e all’estero.
I Tolkieniani Italiani sul nostro sito
Siamo lieti di annunciare che prende il via proprio oggi, alla vigilia di Ognissanti (o Samhain) del 2018, una delle cose che reputiamo più belle alle quali ci stiamo dedicando da qualche tempo: Tolkieniani Italiani, uno spazio in più ambienti (web, social network e soprattutto incontri dal vivo) che raccoglierà e presenterà una serie di attività ideate e realizzate da tutti coloro che si riconoscono in un certo modo di vivere e condividere valori e atmosfere della Terra di Mezzo.
Questo spazio naturalmente sarà aperto al confronto e allo scambio anche con chi proviene da “altri mondi”: la prima testimonianza di ciò è esibita proprio con l’esordio, che si concretizza con una prima iniziativa che lasciamo presentare al suo sostenitore e promotore più ispirato: Giuseppe Scattolini, fondatore e presidente dell’associazione Tolkien nelle Marche – I Cavalieri del Mark con cui noi di STI abbiamo raggiunto un’intesa e stretto un’amicizia che speriamo duratura, gratificante e stimolo di crescita per tutti noi – andando ad aggiungersi ai nostri ormai storici compagni di viaggio di Eldalië, Collezionisti Tolkieniani, Tolkieniana.Net e Tolkien Italia.
Auspicando che sarà il primo passo di un lungo cammino fianco a fianco, lasciamo dunque la parola e l’attenzione a Giuseppe Scattolini.
Carissimi amici, Cavalieri del Mark, Tolkieniani Italiani,
quest’oggi sono stato chiamato a presentarvi una nuova iniziativa dei Tolkieniani Italiani, in quanto è nata in una discussione tra amici avvenuta in uno dei canali dei Cavalieri del Mark, di cui sono presidente. Ringrazio quindi anzitutto Greta Bertani, che ha lanciato l’idea di raccogliere “interviste” che porteremo avanti, e poi tutti coloro che hanno pensato a farne un ciclo intero che verrà definendosi in itinere. Ringrazio anche chi rende possibile questo progetto particolare, e chi accoglie questo mio articolo nei propri canali. Grazie sentitamente a tutti.
Per capire le intenzioni che stanno dietro all’iniziativa, dobbiamo capire la volontà profonda di coloro che l’hanno lanciata. Penso che sia palese e noto a tutti quanto la realtà tolkieniana italiana sia stata finora un luogo non esattamente pacifico, né accogliente, soprattutto per i neofiti e per chi tra i propri interessi ha l’esclusivo approfondimento di Tolkien. Penso che saremo tutti d’accordo nel dire che uno dei passaggi chiave de Il Signore degli Anelli sia il ritorno di Gandalf nel capitolo “Il Cavaliere Bianco”. Qui Gandalf, non più “il Grigio” ma “il Bianco”, dice alcune delle parole decisive dell’intero libro: dichiara di essere “Saruman come doveva essere”.
Saruman infatti, nelle intenzioni dei Valar che mandarono gli Istari sulla Terra di Mezzo, doveva essere la guida principale contro Sauron e le forze del male. Avrebbe dovuto in sostanza essere lui ad incontrare Thorin in quell’incontro casuale di Brea, avrebbe dovuto essere lui a chiamare Bilbo per essere il quattordicesimo della compagnia di Scudodiquercia, avrebbe dovuto essere lui a guidare la Compagnia dell’Anello ed a cadere nell’affrontare il Balrog di Morgoth a Moria. Ma Saruman non c’è mai stato in queste circostanze. Ha preferito gli alti torrioni, far godere ai popolani del suo aiuto e della sua conoscenza solo quando costretto, di mala voglia, e senza mai confondersi tra loro, senza mai sporcarsi col fango delle strade.
Tutt’altro, noi sappiamo, ha fatto Gandalf, Grigio come le giornate piovose che ha affrontato pur di raggiungere e guidare i suoi compagni, o come le chiazze di fango scuro rimaste sulle sue vesti. Potremmo anche immaginarci come, cosa che Tolkien non dice e non incoraggia a dire, ma per amor di interpretazione lo diremo noi, in principio anche le vesti di Gandalf fossero bianche, ma col tempo si sono colorate dello stesso colore dei luoghi dove camminava, grigi, bui, tetri, sporchi, mentre Saruman è rimasto, più che il bianco, “il puro”, colui che con gli affari piccoli dei mortali non aveva intenzione, non l’ha mai avuta, nemmeno quando era “buono”, di sporcarcisi.
Purtroppo, il mondo Tolkieniano non è mai stato come dovrebbe essere, ma è sempre stato il Saruman della situazione: attento a non avere a che fare cogli affari dei mortali, e tendente non a guidare ma a comandare, a togliere di mezzo ed eliminare in nome del progresso, a diventare il Multicolore quando avrebbe dovuto essere Bianco. Tendente soprattutto a fare delle promesse che poi non avrebbe mantenuto, e ad ingannare quanti incappavano nelle sue reti.
La nostra volontà profonda, Tolkieniani Italiani, è sostanzialmente questa: dare vita a una realtà tolkieniana nazionale come sarebbe dovuta essere da cinquant’anni a questa parte. Questo significa che mai più nessuno verrà lasciato solo, che tutti avranno il diritto di avere una realtà tolkieniana vicino a casa loro e degli amici con cui parlare di Tolkien. Significa che non è necessario che tutti dobbiamo sempre trovarci in uno stesso posto, che siano rocche medievali, fiere del fumetto e quant’altro: Tolkien deve abitare nei nostri cuori, nelle nostre case e vicino ad esse, negli amici di una vita.
Gli studiosi al fianco degli appassionati, gli appassionati al fianco degli studiosi, approccio totale alle opere di Tolkien, amicizia e fraternità: questi sono i valori da portare avanti. Non le fiere col biglietto d’ingresso a pagamento, dove si parla di fumetti e non di letteratura: Tolkien per essere capito va accostato alla filosofia, alla letteratura, alla teologia, agli ambiti del sapere umano profondo, non alle feste in maschera. Per un motivo molto semplice: le feste in maschera accadono un giorno o due nell’arco di tutto l’anno, Tolkien invece ti accompagna tutti i giorni della vita, in quelli belli e in quelli brutti, ti fa provare gioie profonde e grande nostalgia per un mondo perduto che ti spinge ad essere migliore nella quotidianità.
Tolkien è molto più di un passatempo, è una presenza costante, un appoggio sicuro, una roccia nel mezzo del mare in tempesta. Per questo le realtà tolkieniane non possono essere il mare in tempesta, ma la roccia salda cui appigliarsi. Pacifiche, belle da vivere: un mondo come sarebbe dovuto essere, ad immagine e somiglianza degli altri vari paradisi terrestri di cui Tolkien ci parla, come la Contea della Terza Era, Númenor durante i primi secoli della Seconda, Valinor della Prima e di ogni altra Era della Terra di Mezzo.
L’idea di questo ciclo di interviste nasce da qui, come prima pietra della grande casa che desideriamo costruire così come dovrebbe essere: iniziamo ad incontrare e far incontrare le persone, discutere della passione tolkieniana, ampliare delle realtà finora rimaste chiuse, asserragliate nelle loro fortezze che aprono solo ogni tanto e come se fosse una grazia concessa. Non ci si può vergognare di essere tolkieniani amici, come se si fosse appassionati uno scrittore di bassa categoria o si leggessero dei testi di scarso valore. È ora di mostrare al mondo, anche al mondo accademico, quanto è grande questo autore.
Giuseppe Scattolini
“Tolkien Archivist” in Italia, a Barletta, nel 2019!
Immagine di proprietà di Oronzo Cilli e qui riprodotta per gentile concessione: tutti i diritti riservati
Appunti (di ricerca) sul drago
Con il permesso dell’autore, vi proponiamo una succosa nota di Giovanni Carmine Costabile (già apparsa nel gruppo Facebook pubblico dei Cavalieri del Mark) in merito alle fonti letterarie sulla figura del drago relativamente alla loro attinenza con le opere di Tolkien. Buona lettura!
Ogni anno c’è qualcuno che scrive un nuovo saggio sui draghi in Tolkien, e ogni anno rileggiamo sempre la stessa roba che si poteva già trovare in Jonathan Evans nel 2000 (diciotto anni fa!). Questo significa che l’argomento draghi è esaurito? Assolutamente no. Significa solo che siamo pigri e ci fermiamo alla ricerchina da liceo. Però, appena uno allarghi un pò il campo, ci sono molte cose interessanti ancora non dette. Ecco un esempio.
Avete presente come si presenta Smaug?
In inglese:
Ebbene, una presentazione del genere sembra proprio naturale per un drago, al punto che non ci chiediamo neanche quale possa essere la fonte di Tolkien. Eppure di fonti a riguardo c’è una grande abbondanza nella letteratura inglese, tutte raccolte da E.K. Chambers in questo passaggio del suo libro sulle rappresentazioni teatrali popolari inglesi:
Potremmo credere che sia finita qui. Tolkien indubbiamente conosceva E.K. Chambers, visto che recensì una sua opera negli anni 50. Inoltre, conosceva The Faerie Queene di Spenser, che cita in Sulle fiabe (e come potrebbe un professore di letteratura inglese non conoscerlo?) e Bevis of Hampton è un romance medievale, di quelli che studiava insieme al Sir Orfeo e al Sir Gawain and the Green Knight.
Eppure c’è dell’altro. Qualcuno forse ha già indovinato di cosa parlo. Se apriamo la Bibbia sul libro di Giobbe, il capitolo 41 è interamente dedicato a un particolare tipo di drago, il drago marino, o Leviatano:
Tolkien, per chi non lo sapesse, contribuì alla traduzione della Bibbia di Gerusalemme, quindi conosceva anche questo. Qual è la vera fonte allora? La Bibbia o la Regina delle Fate? La Palestina o la Germania? Cristiano o pagano?
La risposta, come dico da tempo, é: entrambe.